Intervista il docente universitario e saggista, sulla guerra di comunicazione. Influencer e social usati come militari per disinformare.
Nel mondo sono già 143 su 192 gli Stati che riconoscono e hanno rapporti con l’ANP. Dopo gli annunci di Parigi e Londra, altri Paesi valutano il riconoscimento all’Assemblea Onu. Tra i Paesi che fanno parte del G20 e che riconoscono lo Stato di Palestina ci sono: l’Arabia Saudita, l’Argentina, il Brasile, la Cina, l’India, l’Indonesia, il Messico, la Russia, la Repubblica del Sudafrica, la Turchia.
Poi oggi, 1°agosto 2025, con un’azione tanto dolorosa quanto coraggiosa uno dei più importanti scrittori israeliani, David Grossman – nato a Gerusalemme nel 1954 – ha pronunciato pubblicamente per la prima volta nella sua vita la parola «genocidio».
«Per anni ho rifiutato di utilizzare questa parola. Ma adesso – scrive Grossmann – non posso trattenermi dall’usarla, dopo quello che ho letto sui giornali, dopo le immagini che ho visto e dopo aver parlato con persone che sono state lì. Anche solo pronunciare questa parola, genocidio, in riferimento a Israele, al popolo ebraico: basterebbe questo, il fatto che ci sia questo accostamento, per dire che ci sta succedendo qualcosa di molto brutto».
Oggi 1° agosto 2025 Grossman davanti ai bambini trucidati, davanti a tanti orrori ri-vive l’orrore di suo figlio Uri, ucciso l’11 agosto 2006, nelle ultime ore della Seconda guerra del Libano. Era un sergente di vent’anni ucciso dai miliziani di Hezbollah. Razzi anticarro di Hezbollah hanno centrato numerosi blindati israeliani. In uno di essi c’era Uri che con i suoi compagni Benaya Rein, Adam Goren e Alexander Bonimovitch, tutti morti, tutti uccisi, tentavano di aiutare un altro carro armato in panne. Perché, si chiede, si ri-chiede l’uomo, lo scrittore, il pacifista, l’intellettuale Grossmann si ripetono gli orrori, gli orrori di un genocidio. Un genocidio questa volta in Terra Santa, in terra israeliana e palestinese? L’accusa di Grossman arriva dopo centinaia di giorni di «mattanza». È un appello di un uomo che ha perso un figlio vestito da militare. A questo proposito, voglio ricordare le dure ma potenti parole scritte, alla fine degli anni Ottanta, da Oriana Fallaci in Insciallah: «L’uniforme non mi mette le bende agli occhi, non provoca in me chiusure umane o intellettuali. Non mi vieta di amar la cultura, di leggere Platone ed Erasmo e Kant. Non mi impedisce di stare dalla parte dell’Uomo, di capire che malgrado la sua perfidia e la sua cretineria egli è davvero la misura di tutto, comunque l’unica bilancia che abbiamo per pesare la vita: l’unico riferimento di cui disponiamo per tentar di spiegarla. Quindi è giusto che continui a credere nel mio mestiere». Ma cos’è, cosa significa la parola «genocidio». Un concetto che intende rappresentare la violenza di massa e che tutt’oggi, nonostante il diritto internazionale e la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948 che ha decretato, promulgato il significato, esso, purtroppo, rimane un termine ancora controverso.
Poniamo al professore Francesco Pira, professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi dell’Università degli Studi di Messina, attento e saggio osservatore dei fenomeni sociologici e dell’impatto che essi hanno sui nostri comportamenti, alcune domande per cercare di comprendere certi fenomeni ma soprattutto l’evoluzione o involuzione delle nostre società.
D: A ottant’anni dalla Seconda guerra mondiale, la guerra più sanguinosa della storia con i suoi 60 / 70 milioni di morti, dopo tante altre guerre scoppiate nel Novecento stiamo vivendo e siamo immersi in una «terza guerra mondiale» senza che i nostri Paesi, cosiddetti democratici, riescano a fermare, con gli strumenti della diplomazia, le catastrofi di Gaza, della Siria, solo per citare le terre a noi più vicine, a poche migliaia di chilometri di distanza dai campi di sterminio europei?
R.: Il 26 giugno del 1945 a San Francisco veniva firmato lo Statuto delle Nazioni Unite, le nazioni, gli uomini e le donne che avevano vissuto l’immane tragedia di due guerre mondiali decisero che avevano il dovere di garantire pace e libertà alle generazioni future con un impegno che si trova esplicitato sin dalle prime righe e che voglio condividere con i lettori:
“Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grande e piccole, a creare le condizioni in cui la giustizia ed il rispetto degli obblighi derivanti dai trattati e dalle altri fonti del diritto internazionale possano essere mantenuti, a promuovere il progresso sociale ed un più elevato tenore di vita in una più ampia libertà, e per tali fini a praticare la tolleranza ed a vivere in pace l’uno con l’altro in rapporti di buon vicinato, ad unire le nostre forze per mantenere la pace e la sicurezza internazionale, ad assicurare, mediante l’accettazione di principi e l’istituzione di sistemi, che la forza delle armi non sarà usata, salvo che nell’interesse comune, ad impiegare strumenti internazionali per promuovere il progresso economico e sociale di tutti i popoli, abbiamo risoluto di unire i nostri sforzi per il raggiungimento di tali fini.”.
Parto da queste parole, da questo straordinario documento per ricordare a me stesso che, nonostante i tanti sforzi profusi lungo questi 80 anni, le guerre sono continuate, hanno attraversato tutte le latitudini, ed in particolare la penisola araba e il Nord Africa hanno vissuto un continuum di conflitti, morti, azioni terroristiche, di cui l’assalto del 7 ottobre 2023, la reazione israeliana su Gaza, Cisgiordania, la Siria, rappresentano ahimé solo l’ultimo capitolo. E non dimentico l’invasione dell’Ucraina, le tensioni tra Cambogia e Thailandia, i focolai di guerra sparsi e mai sopiti, che continuano a martoriare l’Africa. Abbiamo perso lo “Spirito di San Francisco”, questa è la triste verità. Viviamo in comunità recintate nonostante la digitalizzazione della società. Come sosteneva Zygmut Bauman: chiuse da muri concreti, in difesa dal «mondo esterno», quel mondo che – a causa dell’erosione o della perdita delle capacità necessarie per attraversarlo (e per viverci dentro), magari mai apprese – diventa troppo spaventoso per rischiare il viaggio di esplorazione, come accade agli uomini della caverna di Platone. Se viene meno la capacità di comprendere, la volontà di difendere valori in nome di un bene superiore che vada aldilà degli interessi momentanei, se non i nostri governi non recuperano la capacità di operare in una visione che guarda al futuro, le guerre non cesseranno.

D.: Perché le parole di papa Francesco, di papa Leone XIV, della nostra Costituzione (art. 11 “L’Italia ripudia la guerra”) sembrano vocaboli morti che non riescono ad essere ascoltati, applicati? Perché abbiamo smarrito il valore morale delle parole e degli insegnamenti della Storia?
R.: Come ho detto i valori, la morale, la memoria non si propagano in modo naturale e spontaneo, vanno alimentati ogni giorno da ciascuno di noi. È una nostra responsabilità, l’agire sociale si basa sulla comunicazione, la relazione consapevole, se non comunichiamo e non agiamo in coerenza con i valori, o se peggio ancora disconosciamo o non conosciamo e comprendiamo il significato di dovere essere portatori di valori, morale e etica, semplicemente quelle parole così alte e profonde, non le comprendiamo, si confondono nel rumore di fondo costante e incessante che attraversa le nostre vite. Per chiarire meglio prendo in prestito le parole della Senatrice Segré che ho letto nella rubrica “La Stanza” che viene pubblica sul settimanale 7 del Corriere della Sera. La senatrice racconta di avere incontrato molti anni fa Mumata Suzuko, sopravvissuta alla bomba nucleare di Hiroshima, attivista per la pace, la quale volle recarsi ad Auschwitz. In quell’occasione richiamò un antico detto giapponese: “le esperienze degli altri oggi, diventano le nostre domani”. Ecco, oggi non siamo in grado di fare nostro il senso di queste straordinarie parole.
D.: Com’è possibile che le diplomazie, le cancellerie occidentali stiano quasi in silenzio dinanzi a tali ed efferati crimini? Il silenzio è anche o ancora una forma di complicità? Perché abbiamo smarrito il senso della misura, della dignità dell’essere umano e sempre più ci lasciamo dominare dalla legge del più forte? Come è possibile che i violenti ed efferati video che passivamente vediamo sulla rete non provochino prese d’atto atte a fermare, bloccare queste inaudite violenze? I nuovi mass media, le nuove tecnologiche stanno rivoluzionando nostra attenzione, la nostra memoria, le nostre emozioni?
R.: Per rispondere a questa domanda vorrei richiamare il concetto di capitale sociale. Nell’ambito più specifico della comunicazione sociale esso è stato inteso come scambio di valori positivi in una logica di cooperazione su mete sociali condivise. Ma oggi siamo di fronte ad una logica di processi comunicativi fortemente individualizzata e io-centrica. La condivisione di valori in funzione del raggiungimento di mete sociali condivise appare indebolita. Le tensioni sociali alle quali stiamo assistendo ci mostrano come una componente chiave della definizione stessa di capitale sociale appaia fortemente fragilizzata, ed è proprio quella connessa al ruolo della fiducia. Se “la fiducia tende ad affermarsi come una dimensione culturale vitale per lo sviluppo e la stessa sopravvivenza delle società contemporanee” (Martino), diviene difficile immaginare costruzione di capitale sociale in una società dove le spinte dal basso costruiscono isole anziché reti, dove la mancanza di trasparenza diviene la regola, dove la falsificazione prolifera in tantissime forme.
Proprio la falsificazione appare sempre più centrale nelle guerre dell’era digitale, un fattore in gradi di incidere in modo profondo sul concetto di fiducia. Già nel 2023 uno studio dell’Osservatorio sociopolitico di Reputation Manager sul conflitto Hamas Israele visto dal digitale, di cui aveva parlato l’Avvenire il 27 ottobre del 2023, mostrava quale narrazione accompagnasse in generale il conflitto israelo-palestinese. I dati mostravano come su TikTok i video dedicati alla guerra in Medio Oriente avevano raggiunto “quasi 99 miliardi di visualizzazioni nel mondo. Come se ogni persona sulla faccia della terra ne avesse guardati 12,3” – Le visualizzazioni dei contenuti sulla guerra, taggati con diversi hashtag mostravano dati incredibili: 35,6 miliardi per #israel, #40,5 miliardi per #palestine, 11,6 miliardi per #gaza, 5,2 miliardi per #hamas. Israele da tempo aveva personale dedicato a generare disinformazione così come Hamas negli anni è diventata sempre più scaltra nell’uso dei social. Una strategia adottata con continuità da ambo le parti e che continua ancora oggi, come dimostrano le recenti cronache, con l’impiego di influencer da parte di Israele per raccontare “la loro Gaza”, dopo le immagini di bambini denutriti, per accusare l’Onu di non distribuire aiuti con i pallet di aiuti fermi al valico di Kerem Shalom, al confine con la Gaza.
Nel 1992 da giornalista ho vissuto l’esperienza di inviato in Iraq, un luogo di guerra, dove la popolazione ha vissuto una dittatura e guerre infinite, ma anche un embargo che ha ucciso bambini e anziani. Ho visto con i miei occhi cosa significa morire di fame o senza medicine. Non soltanto per le bombe. Un’esperienza che mi ha segnato, la più dura ma la più significativa nella mia carriera giornalistica. Oggi da studioso dei media provo a capitalizzare quell’esperienza giornalistica che mi dà la possibilità di comprendere dinamiche complesse.
Stiamo assistendo da troppo tempo all’arroganza del potere che nega, occulta, manipola la verità. Forse dovremmo interrogarci una volta di più come già aveva fatto la filofofa Hannah Arendt sul rapporto tra verità e politica.
È forse proprio dell’essenza stessa della verità essere impotente e dell’essenza stessa del potere essere ingannevole? […] la verità impotente non è forse disprezzabile quanto il potere che non presta ascolto alla verità? (H. Arendt, Verità e politica).