“Fotografo tutto ciò che mi incuriosisce. E lo faccio da sempre. Con la presunzione, meglio ancora con la sottesa illusione, di fermare il tempo o almeno una precisa, infinitesima porzione di quello stesso tempo, che permetta allo scatto fotografico di diluirsi di volta in volta in ricordo personale, memoria collettiva, testimonianza di epoche e mondi”.
Così scrive Gianfranco Jannuzzo regista, attore, commediografo italiano, un agrigentino trapiantato a Roma che non finisce mai di stupire. Ma proprio mai. Perché ha sempre con se una macchina fotografica con cui riesce ad immortalare pezzi della sua e della nostra vita. Cattura tutto con una sensibilità capace di raccontare tutto, ma proprio tutto, con uno o più scatti. Ed il libro “Italia Amore Mio” (Edizioni Battello con il Patrocinio dell’Università Popolare di Trieste), è una vera opera d’arte, che da qualche giorno ho in mano e ho divorato pagina dopo pagina, tornando avanti e indietro, è davvero avvincente, emozionante, totale.
L’ha curato con amore e passione il bravissimo Fabrizio Somma, amico di Gianfranco, che davvero si è superato. Come Gianfranco del resto. In questo libro c’è davvero la sua anima, tutta. Senza lasciarne un pezzettino fuori.
Scrive nella prefazione di Angelo Callipo :“Era il 1861 quando Massimo D’Azeglio pronunciava la frase che sarebbe passata alla storia: “Abbiamo fatto l’Italia, dobbiamo fare gli Italiani”. A centosessantaquattro anni di distanza indagare, scoprire, perfino svelare gli italiani può diventare un viaggio affascinante e pieno di magia, soprattutto se si accantona la pretesa di tracciare un panorama antropologico o politico, ma ci si arma piuttosto della profonda consapevolezza che la nostra identità collettiva altro non è che un incontro di singoli, di vite, di presenze.

Gianfranco Jannuzzo percorre le strade di città, che siano del sud o del nord di questo bel paese ha davvero poca importanza, e cattura sguardi, volti, sorrisi, gesti, sollevandoli dal loro anonimato e mostrandoceli nella loro entità di concrete esistenze, come se di queste concrete esistenze fossero quei sorrisi o quegli sguardi solo e nient’altro che segni particolari. Così, la dimensione collettiva passa attraverso il riconoscimento del singolo e riconoscere il singolo significa, in fondo, riconoscere ciò che rende ognuno di noi uguale e diverso dall’altro.
Cosa lega i tre clown appoggiati a una colonna alle due gemelle vestite di bianco? Cosa unisce l’uomo che con gesto tenerissimo taglia la pizza all’anziano padre con la madre che, seduta su una panchina, regge tra le braccia il proprio figlio? Cosa fa intrecciare tra loro le linee verticali del Colosseo quadrato a Roma con la sinuosa morbidezza di Piazza Unità D’Italia a Trieste? Forse niente, forse tutto.
Preferisco immaginare che a collegarli, come su un’immensa tavolozza con migliaia di puntini che aspettano solo di essere uniti, sia semplicemente il fatto che essi sono lì, in quel momento, con il carico della loro esistenza, con la loro tangibile unicità, perché non c’è nulla di più universalmente riconoscibile di fronte alla storia e nella storia che lo straripante infinito che ognuno di noi si porta dentro.
Gli stessi ritratti di Gigi Proietti, Rossella Falk, Franco Zeffirelli smettono di essere icone del tempo, volti del cinema o del teatro e si fanno ai nostri occhi uomini e donne, ci guardano senza vederci, ci parlano senza dire una parola, sono semplicemente persone, quelle che ami e che ti strappano una lacrima, un sorriso o un’imprecazione.
Sono le persone il più grande spettacolo cui si possa assistere, uno spettacolo irresistibile, come Gianfranco stesso ha più volte dichiarato, sono quelle con cui ha sempre cercato un rapporto, con la macchina fotografica tra le mani o con le parole da un palcoscenico, sono le singole persone che a guardarle ci raccontano che siamo tutti, nessuno escluso, differenti e uguali tra di noi.
Perciò, forse, dopo centosessantaquattro anni l’interrogativo di D’Azeglio non chiede più una risposta, ma solo un sguardo attento e affettuoso. Il punto non è più fare gli italiani, ma saperli guardare. E le foto di Gianfranco Jannuzzo sembrano dirci proprio questo: guardateli questi italiani, guardateli uno per uno e così non sarà più necessario andarli a cercare.”

Mi piace riportare tutto quanto è contenuto nella prefazione perché riesce davvero a narrare di cosa si tratta, senza però tracciare dei confini. Perché Gianfranco Jannuzzo è nelle sue splendide foto così come lo vedi in teatro: imprevedibile. Ma capace di arrivare dentro scrutarti e farti innamorare dei suoi scatti, che poi diventano tuoi.
Fabrizio Somma a cui mi legano tanti anni di amicizia me lo aveva detto e promesso: “vedrai che libro è…non ti anticipo nulla. Capirai tu stesso”. E ho capito che è davvero difficile spiegarvi quanto è bello se anche voi non vi lasciate travolgere da queste foto piene di amore e di Italia. Già, sono queste le due parole.
“l’Italia che mi piace – ha scritto ancora Gianfranco Jannuzzo- è quella che ci ha insegnato a misurare le nostre differenze non dalle religioni, dal colore della nostre pelle o dalla razza. Sono le sponde bellissime dei nostri mari e le cime sublimi delle nostre montagne a renderci diversi, i dialetti ricchissimi, i sapori delle nostre cucine, le mille idee che fanno di questo nostro Paese un inesauribile cantiere”.
La nostra Italia e l’amore che dovremmo esprimere ogni giorno. Come hanno fatto Gianfranco, con le sue foto artistiche e Fabrizio mettendo insieme tutti i materiali e ordinandoli, lasciandoci poi senza fiato.
Vi affascineranno persino i ringraziamenti. Vi incuriosirà tutto. Nell’era dell’Intelligenza artificiale sentirete il profumo della carta.
E alla fine mi sento di scrivere a Gianfranco e Fabrizio: bravi, bravi e ancora bravi. E mi fermo qui…