La pena tra retribuzione, rieducazione e, perché no, prevenzione

Articolo di Massimo Rossi

L’estate porta a considerare la situazione dei detenuti e delle carceri e ciò è giusto e doveroso.

Le carceri devono essere umane e umanizzate ed utilizzate solo come estrema ratio.

Noi vogliamo affrontare in modo sintetico il tema della pena e della sua funzione nell’assetto sanzionatorio, retributivo, rieducativo e special preventivo.

La pena non è una inutile figura giuridica come il clima di “perdono” e “perdonismo” diffuso potrebbe fare credere.

Senza reato non c’è pena, senza pena non c’è rieducazione e prevenzione.

La pena ontologicamente è lo strumento attraverso il quale il diritto tende a riequilibrare il rapporto che è stato leso dal reato.

La pena ha un effetto retributivo, rieducativo e (in taluni casi) preventivo.

I contenuti essenziali della pena sono:

a) la retribuzione rispetto al reato commesso;

b) la rieducazione del reo ex art. 27 Cost;

c) la prevenzione su reati che possono essere commessi.

Se i contenuti o uno di essi non è realizzato si arriva all’assurdo che il reo non sente la pena come retribuzione rispetto al reato, alla lesione del bene protetto ed ai diritti della vittima.

Inoltre, non ha neppure una effettiva rieducazione che lo collochi a fine pena come un soggetto recuperato e riconciliato nel contesto della società civile.

Non è semplicemente il fatto di avere subito una condanna che rende retributiva la pena, ma la consapevolezza di espiare una pena in ragione del male fatto alla persona offesa ed in ragione della antigiuridicità del fatto e della lesione del bene protetto di cui è titolare la collettività.

Solo così si può giungere alla seconda fase: quella della rieducazione che deve avvenire all’interno della struttura penitenziaria e fuori di essa.

Molto significativo è il post pena che ha la necessità di essere attuale ed effettivo e non come adesso: un baratro nel nulla.

Altrimenti, è ovvio che si determina una probabile recidiva del soggetto che ha commesso il reato.

Se è vero che il mondo carcerario ha problemi contingenti di sovraffollamento è, altresì, vero (anche se molti ben pensanti non lo voglio ammettere) che un atteggiamento solo premiale fa venire meno il ruolo ed il fine della pena.

Con ricadute enormi sul tessuto sociale e civile della collettività che ha subito il reato.

Si sono fatte queste considerazioni perché ci sembra che a molti che affrontano il tema dello stato impietoso delle carceri sfugga un particolare non da poco: i condannati in via definitiva hanno commesso reati anche molto gravi e non si può obliare il fatto che essi se non rieducati e resi consapevoli del fatto commesso, non possono che reiterare il comportamento.

Lo ammettiamo e lo abbiamo già scritto (vedi articolo su Consult Press sulle carceri) non siamo favorevoli ad un provvedimento di amnistia o peggio di indulto in modo generalizzato.

Non siamo favorevoli perché abbiamo bisogno di interventi tampone, ma di programmi che facciano delle carceri dei luoghi di riconciliazione con la società e presa di coscienza di quanto commesso.

L’uomo non può essere rieducato se non prende atto che quanto da lui commesso è un fatto che va a ledere un’altra persona e la collettività tutta.

Nessuna rieducazione senza la piena consapevolezza di quanto commesso.

Abbiamo già espresso il nostro pensiero in merito alla possibile struttura dell’intervento sul pianeta carceri ed a quello ci rifacciamo.

Bisogna, però, che le forze politiche smettano di fare demagogia ed inizino a fare le riforme mirate e condivise.

Una su tutte, rendere effettive le REMS e togliere dal carcere coloro che soffrono di malattie psichiatriche.

Ogni intervento è essenziale che giunga in un quadro d’insieme e non in una iniziativa “spot” che non porta a nessun risultato.

La tematica abbraccia concetti che fanno la piena differenza tra uno Stato repressivo senza scopo ed uno Stato “perdonista” senza senso.

La realtà carceraria in alcuni casi non può essere sostituita, ma in un quadro complessivo vanno rivisti i reati, vanno riviste le sanzioni e vanno riviste le sfere di tutela che l’ordinamento ritiene di garantire.

Il diritto, ed in particolare il diritto penale, in senso generale, è la chiave della sensibilità ed attenzione di un popolo.

Non è e non può essere un monolite.

Sarebbe la sua morte.

Gli interventi in questo settore devono essere sempre organici e mai episodici e sporadici.

Devono sempre avere alla base principi e valori.

Inoltre – e qui mi devo togliere un sassolino dalla scarpa – basta seguire ipotesi di natura “perdonistica” in senso generalizzato che vedo in giro.

Lasciamo tale compito alla Chiesa Cattolica Romana, lo Stato è e deve essere laico e deve rispondere a criteri di giustizia ed equità reali e non spirituali.

La coerenza di un ordinamento passa dalla risposta rispetto al reato e dalla effettiva efficienza di un programma di rieducazione.

Non passa certo da un atteggiamento solo per compiacere un certo elettorato e le direttive dell’Europa che, francamente, di diritto ed in particolare di diritto penale, non pare un esempio.

Retribuzione e rieducazione sono due pilastri che devono sempre esserci se non si vuole frantumare ed annullare il ruolo della giustizia penale.

Altrimenti, l’ordinamento ha fallito e la società è esposta alle recidive dei delitti perché a qualcuno del perdono (mettiamocelo in testa) non importa nulla.

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