Gaza, l’ultima fermata dell’umanità: in dialogo con il professore Francesco Pira

Articolo di Pietro Salvatore Reina

Dallo scorso 7 ottobre 2023 tanti intellettuali (lo storico israeliano Ilan Pappé, il linguista americano Noam Chomsky, lo scrittore indiano Pankaj Mishra, lo scrittore israeliano David Grossman, il regista e reporter Nicolosi Valerio, lo storico Enzo Traverso et alii) hanno scritto, denunciato la distruzione di Gaza: «è una conseguenza dell’attacco del 7 ottobre o l’epilogo di un lungo processo di oppressione e sradicamento?» (E. Traverso)

Dall’11 settembre2001 molto è accaduto nel nostro mondo: guerre, catastrofi naturali, crisi finanziarie, la pandemia Covid-19, terremoti politici, ecc. Ma niente sembra paragonabile a Gaza.

Mentre la Striscia di Gaza si sgretola è di fondamentale, è di grande importanza porsi delle domande che nascono dalle attuali crisi geopolitiche. Nel suo primo messaggio pubblico papa Leone XIV dopo la sua elezione ha ripetuto l’appello di Papa Francesco per la pace nel mondo sottolineando che «siamo in una terza guerra mondiale a pezzi».

Abbiamo voluto su questo tema, conoscendo la sua sensibilità scrivere questa conversazione con il professor Francesco Pira, Associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, saggista e giornalista, e interprete e analista su quanto sta avvenendo e soprattutto come viene comunicato.

D.: Perché́ alcune vite sembrano contare più̀ di altre? Perché l’impressionate numero di bambini uccisi a Gaza (ventimila orfani, quindicimila bambini uccisi, più di trentamila feriti, più di ottocento neonati uccisi) – bambini sinonimo di innocenza, incapaci di fare il male – non suscita sgomento, rabbia. C’è un senso di impotenza da parte dell’Europa, degli Stati Uniti d’America? Dov’è la forza, l’autorevolezza dei Paesi del G20, dell’UNESCO? Perché nelle scuole, nell’università c’è tanto silenzio: alcune vite contano di meno? «Questi massacri – afferma il politologo e arabista francese Gilles Kepel -, che si rispecchiano l’uno nell’altro, ci riguardano tutti».

R.: «Questa domanda, così profonda e dolorosa, tocca il cuore della nostra coscienza collettiva e apre a una riflessione sociologica essenziale: la diseguaglianza nella percezione del valore delle vite umane. La morte di migliaia di bambini a Gaza – creature innocenti, incapaci di fare il male – non genera lo stesso sgomento che avrebbero probabilmente causato se fossero nati altrove. Questo dato drammatico ci obbliga a interrogarci: davvero tutte le vite umane valgono allo stesso modo? Dal punto di vista sociologico, si può parlare di una gerarchia del dolore, ovvero una scala implicita e spesso inconsapevole con cui media, istituzioni, e opinione pubblica attribuiscono più valore ad alcune vite rispetto ad altre. Questa gerarchia si basa su variabili come la nazionalità, l’appartenenza culturale o religiosa, ma anche sul ruolo geopolitico che una determinata popolazione occupa nello scacchiere internazionale. Le vittime occidentali ricevono generalmente maggiore attenzione, mentre quelle di aree periferiche, come Gaza, rischiano di essere numeri in un bollettino. Di fronte a queste ingiustizie, si percepisce una forte impotenza delle istituzioni internazionali. I grandi del mondo – il G20, l’ONU, l’UNESCO – sembrano incapaci di esercitare un’effettiva pressione politica per fermare i massacri. Gli interessi economici, militari e strategici prevalgono spesso sui principi umanitari. Come dimostra il caso ucraino, le armi arrivano (seppur in ritardo), ma quando si tratta di Gaza, gli aiuti umanitari sembrano insufficienti, tardivi e, soprattutto, incapaci di fermare il ciclo della violenza.

Un’altra chiave di lettura riguarda i media: la rappresentazione del conflitto mediorientale è spesso distorta o parziale. I bambini uccisi a Gaza raramente aprono i telegiornali, e le immagini che arrivano, per quanto strazianti, non riescono a muovere un’opinione pubblica ormai assuefatta o selettivamente indignata. Questo silenzio nei luoghi della cultura – è parte del problema. Perché se le nostre istituzioni tacciono, stiamo perdendo la battaglia della memoria, della giustizia e dell’umanità. I bambini morti nella Striscia di Gaza – più di 15.000 secondo fonti umanitarie – avevano diritto di vivere. La loro morte non è solo una tragedia personale o familiare: è una sconfitta collettiva. Quando la guerra devasta l’infanzia, si devasta il futuro. Le immagini di bambini senza arti, traumatizzati o distesi su un lettino senza vita dovrebbero risvegliare una profonda responsabilità sociale. E invece sembrano invisibili. Perché? Forse perché i più deboli, i più fragili, i più lontani, non riescono a trovare spazio nei discorsi di potere. Cosa possiamo fare noi? Non abbiamo strumenti concreti per fermare un conflitto armato, è vero. Ma possiamo e dobbiamo parlare. Possiamo scegliere di non restare in silenzio. Possiamo portare nelle nostre aule, nei nostri spazi di studio e riflessione, queste storie dimenticate. Possiamo usare il linguaggio della verità, della giustizia e della solidarietà. C’è bisogno di un nuovo “umanesimo”, un’etica globale che rimetta al centro la dignità dell’essere umano, senza distinzione di origine o religione. Le parole del politologo Gilles Kepel ci ricordano che questi massacri “ci riguardano tutti”. E infatti è così: la morte di un bambino a Gaza è anche una ferita nella sensibilità universale. Una civiltà che non riesce a indignarsi per la morte dei bambini non può dirsi veramente umana. In un tempo in cui sembra che tutto sia relativo, la vita di un bambino dovrebbe essere assoluta».

Prof. Francesco Pira

D.: Su Gaza incombe anche lo spettro della carestia. Se non arrivano aiuti, se non si aprono i cosiddetti corridoi umanitari, 14.000 bambini potrebbero morire di fame (denuncia Tom Fletcher, il responsabile degli affari umanitari dell’ONU). Una situazione aggravata dal fatto che manca assistenza medica, gli ospedali sono ormai al collasso sotto il fuoco che dura da tre anni. Perché il nostro mondo democratico, presunto esportatore di democrazia, ha gli occhi chiusi, il cervello piatto, il cuore fermo dinanzi a tutto ciò? Perché l’Occidente non alza la voce, non alza la testa? Quale Storia, quale «umanità» dopo Gaza?

R.: «La tragedia di Gaza ci pone davanti a una delle domande più inquietanti del nostro tempo: perché il nostro mondo democratico, che si definisce “esportatore di diritti e civiltà”, resta in silenzio davanti all’orrore? Di fronte a bambini che muoiono di fame, a ospedali ridotti in macerie, a 14.000 piccoli condannati alla carestia (secondo l’ONU), ciò che colpisce non è solo la violenza, ma la paralisi morale delle democrazie occidentali. La questione, prima ancora che politica o umanitaria, è profondamente sociologica. Infatti, si tratta di disumanizzazione selettiva: non tutte le vittime vengono percepite allo stesso modo. Alcune sono visibili, altre invisibili. Alcune fanno notizia, altre no. Gaza oggi è il luogo dell’invisibile. I bambini palestinesi non rientrano nel nostro “immaginario di prossimità” e quindi diventano “altro”, distante, quasi inevitabile. Questo meccanismo è frutto di anni di narrazione distorta, in cui il conflitto israelo-palestinese è stato ridotto a una questione di sicurezza, e non di diritti umani. Viviamo in un tempo in cui le democrazie occidentali si presentano come promotrici di pace, ma spesso si trasformano in attori passivi o complici di conflitti asimmetrici. L’assenza di un’azione concreta a Gaza – l’incapacità di imporre un cessate il fuoco, di aprire corridoi umanitari, di inviare aiuti efficaci – mostra il fallimento strutturale delle istituzioni internazionali. Il G20, l’ONU, l’Unione Europea si mostrano deboli o condizionati da interessi geopolitici. La democrazia diventa allora retorica: esportata a parole, ignorata nei fatti. Durante uno dei miei soggiorni accademici a Lublino, in Polonia, ho parlato agli studenti di diverse nazionalità del ruolo della disinformazione nei conflitti contemporanei.

La guerra del Terzo Millennio si combatte anche con le fake news: la verità è manipolata, filtrata dai nostri pregiudizi cognitivi e confermata dai meccanismi dell’“economia dell’attenzione”. I media e i social selezionano cosa mostrarci e cosa no. Come ha denunciato NewsGuard, molti profili verificati su X hanno diffuso false informazioni sul conflitto in Medio Oriente, contribuendo a una narrazione distorta e polarizzata. E così, mentre muoiono bambini, la realtà viene “spiegata” con mappe e infografiche, ma raramente sentita con il cuore. Colpisce il silenzio delle istituzioni educative. Dov’è il dibattito, l’analisi, l’indignazione formativa? L’educazione oggi dovrebbe essere il primo presidio contro l’indifferenza e invece, troppo spesso, si adatta alla neutralità. Ma l’indifferenza, come ha detto Elie Wiesel, è sempre complice. Papa Francesco – recentemente scomparso – è stato una delle voci più lucide nel denunciare la perdita dell’infanzia nei luoghi di guerra. Ricordava che i bambini, anche sotto le bombe, cercano di giocare. Gaza oggi è la tomba del sorriso: non solo muoiono i corpi, ma si spegne l’anima dell’umanità. Janusz Korczak, medico e pedagogo, scrisse che “i bambini non sono soldati, non difendono la patria, ma soffrono con essa”. Questa frase è una condanna a tutte le guerre moderne. Dopo Gaza, quale Storia potremo raccontare? Saremo ricordati come la generazione che ha voltato lo sguardo, o come quella che ha deciso di vedere? Come quella che ha difeso i confini, o come quella che ha difeso i bambini? L’umanità si misura da questo: non da quante guerre ha combattuto, ma da quante vite è riuscita a salvare».

D: Si sente di aggiungere altro, di ricordare qualche sua esperienza sul campo?

R.: «Rispondendo alle sue domande ho ripensato a due momenti importanti della mia vita. Il primo da inviato di una tv nazionale (Video Music) in un luogo di guerra: l’Iraq. Correva l’anno 1992. Ricordo gli occhi dei bambini dell’ospedale pediatrico di Bagdad. O dei sopravvissuti davanti un rifugio sempre nella capitale irachena. Ma ricordo anche i bambini per strada a Bangalore in India o a Bangkok in Thailandia, dove sono stato relatore in convegni internazionali. Come quelli dei bimbi ucraini che ho incontrato in Polonia. Tristi, troppo tristi e incredibilmente tristi. E non è giusto. Ma almeno loro provano a rimanere vivi. Altri muoiono senza capire e sapere il perché. Dopo che sono nati. Morire di fame e morire perché uccisi. Non è giusto».

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