Domenica 19 luglio di 32 anni fa, verso le 17 e 20, camminavo su pezzi di cadavere e lamiere contorte. Fotografavo una scena di guerra e di orrore che la mano mafiosa aveva voluto. A Palermo avevano appena fatto una strage, avevano ucciso con un’autobomba il giudice Paolo Borsellino e i suoi cinque agenti di scorta. Il 20 luglio dopo un paio d’ore di “stacco” serviti a sviluppare le pellicole e a stampare le foto, tornai in via D’Amelio e all’alba presi delle panoramiche del luogo della strage. Le presi dall’alto, dall’ottavo piano salendo rampe di scale e di macerie del palazzo di fronte. Subito dopo volai a Milano dove il mio agente mi aspettava per “piazzare” il mio materiale fotografico ai maggiori rotocalchi dell’epoca. La sera stessa tornai a Palermo. Non avevo dormito nè mangiato e non mi ero fermato neppure dieci minuti. Il 21 luglio tornai sul luogo dell’eccidio per fotografare gli sfollati che furono costretti a lasciare le loro abitazioni dichiarate inagibili. Questa fu la prima coppia che fotografai, erano circa le nove del mattino. Io non avevo idea di chi fossero. Seppi poi dalle redazioni dei giornali a cui le avevo proposte che erano la sorella del magistrato ucciso, Rita, e suo marito. Loro vivevano nella stessa casa delle vecchia madre di Borsellino e vissero quel dramma in diretta attaccati al citofono. Paolo Borsellino quella maledetta domenica andava a trovare proprio la sua mamma. Non ci è riuscito, non ha mai potuto salutarla. La mafia non glielo ha consentito.
La Strage di via d’Amelio e gli sfollati che furono costretti a lasciare le loro abitazioni
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