Nuova crisi militare in Medioriente con l’intervento degli Stati Uniti

Articolo di Antonino Schiera

Guerra a macchia di leopardo! L’uomo che violenta se stesso e la natura che ambisce a tornare al tempo della clava nelle caverne?

La novità dell’ultima ora, ovvero l’intervento armato diretto degli Stati Uniti nella guerra iniziata da Israele nello scacchiere mediorientale dopo gli attacchi di Hamas, pone nell’opinione pubblica un angoscioso interrogativo. Rappresenta questo l’inizio di una escalation militare, che può avere implicazioni nell’uso di armi atomiche e soprattutto il coinvolgimento di altre superpotenze? Va sottolineato un aspetto altrettanto inquietante, ovvero il fatto che quanto sta succedendo in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e territori limitrofi non fa parte di un conflitto connotato da velleità espansionistiche, come può essere definita la crisi bellica tra l’Unione Sovietica e l’Ucraina. Rientra piuttosto in un contesto che vede le parti belligeranti in totale opposizione politica, economica, religiosa, territoriale. Al punto tale che l’obiettivo finale, da entrambi le parti, è l’eliminazione fisica e del concetto di Stato in quei territori. Semplificando da una parte Israele con l’alleato storico gli Stati Uniti d’America, dall’altra parte i Palestinesi appoggiati dagli stati di religione islamica, non ultimo l’Iran che va sottolineato è in rapporti complessi e talvolta collaborativi con l’Unione Sovietica, spesso descritti come un’alleanza strategica e formalizzati con il Trattato di partenariato strategico del gennaio 2025 all’insegna del pragmatismo e degli interessi reciproci in chiave antiamericana

Fatta questa considerazione, nell’auspicio che si addivenga quanto prima a un cessate il fuoco, su quali basi si possa fondare una pace duratura in quelle zone è davvero difficile immaginare.

Entrambi i popoli, israeliani e palestinesi, rivendicano il diritto a una terra che considerano la loro patria storica. I palestinesi rivendicano il diritto a uno stato indipendente nei territori occupati da Israele dal 1967, mentre gli israeliani affermano che Israele è la loro patria. Come il fuoco che cova sotto le ceneri, con improvvisi guizzi di fiamme, assistiamo inermi all’odio atavico che insiste nella zona.

In mezzo ai tanti conflitti desidero sottolineare il tentativo del presidente egiziano Anwar al-Sadat che ricevette il premio Nobel per la pace nel 1978, ex aequo con il primo ministro israelinao Menachem Begin per avere promosso gli accordi di Camp David. Sadat fu assassinato al Cairo nel 1981 da membri del gruppo islamista Jihad Islamica, durante una parata militare. Il suo assassinio fu in parte motivato dalla sua politica di pace con Israele.

E il tentativo di Yasser Arafat, leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), coinvolto negli Accordi di Oslo, firmati nel 1993, che prevedevano l’autogoverno palestinese in alcune aree della Cisgiordania e di Gaza.

Nel mezzo tanti momenti di esplosione del conflitto che ricostruisco con l’aiuto dell’Enciclopedia Treccani.

La prima trovò la sua maggiore premessa nel rifiuto da parte araba di accettare la spartizione della Palestina decisa dalle Nazioni Unite con la risoluzione del 29 novembre 1947. Il giorno successivo la proclamazione d’indipendenza d’Israele (15 maggio 1948) gli eserciti di Egitto, Siria, Transgiordania, Iraq e Libano invasero il territorio dello Stato ebraico. Malgrado le ancora deboli strutture del proprio esercito, Israele respinse le forze nemiche e invase la penisola del Sinai. Si pose fine alle ostilità con la tregua del luglio 1948, che permise a Israele di incorporare nei propri confini la Galilea orientale, il Negev e una striscia di territorio fino a Gerusalemme, di cui occupò la metà. Seguì (1949) una serie di trattati di armistizio separati fra lo Stato ebraico e l’Egitto, il Libano, la Giordania e la Siria.

Il secondo conflitto scoppiò a seguito della nazionalizzazione del Canale di Suez (26 luglio 1956) attuata dal presidente egiziano Nasser. L’esercito d’Israele approfittò della difficile posizione internazionale in cui venne a trovarsi l’Egitto per realizzare una fulminea avanzata nel Sinai fino al Canale di Suez (29 ottobre – 5 novembre). La situazione fu complicata dall’intervento militare di Francia e Gran Bretagna (30 ottobre), i cui interessi erano stati colpiti dalla nazionalizzazione del canale. Tale intervento fu duramente condannato dall’ONU (in particolare dagli USA e dall’URSS) che, finite le ostilità (9 novembre), inviò in Egitto un corpo di spedizione, costringendo al ritiro le forze anglo-francesi e d’Israele. Allo Stato ebraico si riconosceva tuttavia il diritto di accedere, per i suoi traffici, al porto di Elat sul Golfo di Aqabah.

La situazione tornò critica nel maggio 1967, quando Nasser chiese il ritiro dei caschi blu dislocati lungo la frontiera del Sinai e decise di bloccare gli stretti di Tiran, bloccando il traffico navale nel Golfo di Aqabah e quindi anche il porto israeliano di Elat. Il 5 giugno 1967 Israele aprì le ostilità, protrattasi fino al 10 giugno successivo ( guerra dei Sei giorni), con un potente attacco aereo che distrusse quasi per intero l’aviazione egiziana. Le forze israeliane occuparono Gaza e il Sinai a danno dell’Egitto, la Cisgiordania e la parte araba di Gerusalemme a danno della Giordania, gli altipiani del Golan a danno della Siria. La guerra dei Sei giorni fu seguita dall’importante risoluzione 242 (22 novembre 1967) del Consiglio di sicurezza dell’ONU, cui avrebbero fatto riferimento tutte le successive iniziative di pace nella regione.

Nel tentativo di riconquistare i territori perduti, il 6 ottobre 1973 Egitto e Siria sferrarono un attacco coordinato contro Israele, dando inizio alla quarta guerra arabo-israeliana (detta anche guerra del Kippur, dal nome della festività ebraica celebrata nel giorno in cui ebbe inizio). All’offensiva araba seguì la controffensiva israeliana; poi, con la risoluzione 338 (22 ottobre 1973), il Consiglio di sicurezza ottenne la cessazione dei combattimenti, seguita nel 1974-75 dagli accordi di disimpegno fra Israele, Egitto e Siria, che consentirono, fra l’altro, la riapertura del Canale di Suez (giugno 1975), rimasto chiuso dopo la guerra dei Sei giorni. La pace separata fra Egitto e Israele (1979) e l’invasione israeliana del Libano (1982-85) modificarono sostanzialmente il conflitto arabo-israeliano che entrò in una nuova fase, focalizzandosi sul fronte siro-libanese e nei territori palestinesi occupati da Israele nel 1967, senza più registrare momenti di scontro generalizzato.

Non dimentichiamo i continui attacchi con bombe umane all’interno del territorio israeliano enon solo e le conseguenti rappresaglie nella Striscia di Gaza, con un numero drammaticamente alto di vittime innocenti tra le popolazioni civili.

Ma torniamo ai nostri giorni non solo vittime dolori sparsi trasversalmente distribuiti a livello mondiale, non dimenticando le guerre a macchia di leopardo citate dal compianto Papa Francesco che ha spesso usato questa espressione per descrivere i conflitti contemporanei, sottolineando come le guerre non siano più eventi localizzati, ma si diffondono in modo frammentato e coinvolgono diverse aree geografiche, un po’ come le macchie su un leopardo.

Controllo del territorio e delle materie prime per primeggiare e continuare a foraggiare le ambizioni espansionistiche e di potere a livello mondiale. In estrema sintesi l’uomo che violenta se stesso e la natura che ambisce a tornare al tempo della clava nelle caverne?

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