Umanità e l’IA, il sociologo prof. Francesco Pira: «bisogna mettere l’uomo – con la sua dignità, la sua fragilità e la sua responsabilità al centro della storia»

Articolo di Pietro Salvatore Reina

Durante il volo di ritorno da Seoul a Roma, il 18 agosto 2014 papa Francesco, in un incontro con i giornalisti a bordo dell’aereo, alla domanda del giornalista Yoshimori Fukushima del quotidiano giapponese «Mainichi Shimbun» (stampato due volte al giorno) rispose con la riflessione, che si ri-copia, che avrebbe meritato e merita maggiore approfondimento: «E oggi noi siamo in un mondo in guerra, dappertutto! Qualcuno mi diceva: “Lei sa, Padre, che siamo nella Terza Guerra Mondiale, ma ‘a pezzi’?”. Ha capito? È un mondo in guerra, dove si compiono queste crudeltà. Vorrei fermarmi su due parole. La prima è crudeltà. Oggi i bambini non contano! Una volta si parlava di una guerra convenzionale; oggi questo non conta. Non dico che le guerre convenzionali siano una cosa buona, no. Ma oggi arriva la bomba e ti ammazza l’innocente con il colpevole, il bambino, con la donna, con la mamma… ammazzano tutti. Ma noi dobbiamo fermarci e pensare un po’ al livello di crudeltà al quale siamo arrivati. Questo ci deve spaventare! Non lo dico per fare paura: si può fare uno studio empirico. Il livello di crudeltà dell’umanità, in questo momento, fa piuttosto spaventare. E l’altra parola sulla quale vorrei dire qualcosa, e che è in rapporto con questa, è la tortura. Oggi la tortura è uno dei mezzi quasi – direi – ordinari dei comportamenti dei servizi di intelligence, dei processi giudiziari… E la tortura è un peccato contro l’umanità, è un delitto contro l’umanità; e ai cattolici io dico: torturare una persona è peccato mortale, è peccato grave! Ma di più: è un peccato contro l’umanità. Crudeltà e tortura. Mi piacerebbe tanto, a me, che voi nei vostri media, faceste delle riflessioni: come vedete queste cose, oggi? Com’è il livello di crudeltà dell’umanità? E cosa pensate della tortura? Credo che farà bene a tutti noi, riflettere su questo» (https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2014/august/documents/papa-francesco_20140818_corea-conferenza-stampa.html). La frase «Terza Guerra mondiale a pezzi» da papa Francesco, ma anche in questi giorni dal suo successore, il papa Leone XIV, è stata ripetuta più volta. Il professore Virgilio Ilari, già docente di Diritto Romano e successivamente professore di Storia delle Istituzioni Militari nell’Università Cattolica di Milano l’ha approfondita nel saggio «La Terza Guerra Mondiale A Pezzi», pubblicato sulla rivista Limes nel febbraio 2016. Secondo il professore Ilari con l’espressione «a pezzi» di Papa Bergoglio intendeva la prosecuzione della Grande Guerra, ibernata per quarant’anni dalla guerra fredda. Una frase-chiave di papa Francesco ripresa da papa Leone XIV l’11 maggio 2025, subito dopo la recita del suo prima Regina Coeli, davanti a centomila persone, rivolta soprattutto ai potenti della Terra. Una frase-simbolo che evidenzia, con grande sagacia, l’atlante delle crisi che il nostro mondo non solo più «liquido» (Bauman), diviso tra «reale e virtuale», come insegna sempre lo stesso Zygmut Bauman, vive una stagione turbolenta, inquieta, implosiva ed esplosiva.

Con il professore Francesco Pira, docente associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi dell’Università di Messina, saggista e giornalista, rientrato nelle ultime ore da Tbilisi (capitale della Georgia ex Urss) dove ha svolto un Visiting Professor (due settimane fa era stato all’Università Marie Curie di Lublino in Polonia, al confine con l’Ucraina), vogliamo affrontare questo delicato tema in ore molto difficili per l’umanità.

Grazie al suo acuto sforzo di guardare al futuro nello e dello sviluppo delle culture umane terremo con il professore Pira, in questi prossimi mesi estivi, una finestra sulle pagine on line de Il salto della quaglia per raccontare ma soprattutto indagare la Cronaca, la Storia e la Società con le sue innovazioni, cambiamenti, evoluzioni e conflitti.

Il professor Francesco Pira con il grande sociologo Zygmunt Bauman

D.: Oggi, dopo le «lezioni» di Bauman, di Stefano Rodotà (Solidarietà. Un’utopia necessaria), di Albert Camus (Il futuro della civiltà europea), di Sabino Cassese (Una volta il furo era migliore. Lezioni per invertire la rotta), di Jürgen Habermas (Il futuro della natura umana) ecc. questo tempo appare davvero «indecifrabile», segnato e incastonato da crisi energetiche, conflitti bellici, impoverimento economico, invecchiamento demografico, insicurezza sul lavoro, violenza sociale, scollamento sociale.

R.: «Oggi viviamo un tempo che molti definiscono “sospeso” oltre che indecifrabile, non tanto perché privo di senso, ma perché attraversato da trasformazioni profonde e simultanee che mettono in crisi i codici tradizionali con cui eravamo abituati a leggere la realtà e indagare la società. L’instabilità economica, le crisi ambientali, i conflitti geopolitici, l’invecchiamento demografico e la precarietà del lavoro si intrecciano, generando un senso diffuso di incertezza, frammentazione e smarrimento. In questo scenario, le riflessioni di pensatori come Zygmunt Bauman, Stefano Rodotà, Albert Camus, Sabino Cassese e Jürgen Habermas ci offrono chiavi interpretative importanti per comprendere la complessità del presente. Ho avuto il privilegio e l’onore di conoscere il professor Zygmunt Bauman, e ho letto e studiato tutto quanto ha prodotto. Ha descritto con grande lucidità il passaggio dalla “modernità solida” a una “modernità liquida”, dove ogni legame sociale e istituzionale appare instabile, provvisorio, soggetto alla logica dell’efficienza e del consumo. Questo ha prodotto una crescente individualizzazione e una perdita di coesione, con ricadute evidenti in termini di insicurezza lavorativa e isolamento sociale. In un contesto simile, il richiamo di Rodotà alla solidarietà come “utopia necessaria” diventa fondamentale: solo attraverso la riscoperta di legami solidi, basati su diritti, inclusione e responsabilità condivisa, è possibile contrastare il disfacimento del tessuto sociale. Allo stesso modo, Camus, già nel dopoguerra, ci metteva in guardia contro la disumanizzazione che può emergere nei momenti di crisi, richiamando l’Europa a una responsabilità etica e culturale che adesso, di fronte a nuove guerre e all’emergenza climatica, risuona con rinnovata urgenza. Cassese, infine, ci invita a non abbandonare la memoria storica e le conquiste della civiltà giuridica e democratica, ricordandoci che la crisi non è una condizione inedita, ma che ciò che conta è la capacità di risposta delle istituzioni e della cittadinanza. In parallelo, Habermas insiste sull’importanza del dialogo pubblico e della razionalità comunicativa come strumenti per mantenere viva la democrazia in tempi di polarizzazione e populismi. In definitiva, il nostro tempo è indecifrabile solo se ci limitiamo a guardarlo con gli strumenti del passato; se invece accettiamo le sfide del presente, possiamo riscoprire – anche attraverso questi autori – la possibilità di orientare il cambiamento. La sociologia ci invita a comprendere i processi in atto, a riconoscere i nessi tra le crisi e a promuovere forme nuove di convivenza e solidarietà. Come Bauman ci ricorda, non possiamo più affidarci a certezze preconfezionate, ma possiamo – e dobbiamo – assumerci la responsabilità di cercare insieme nuove vie per abitare il mondo».

Il professor Francesco Pira alla Tbilisi State University durante il suo recente Visiting Professor

D.: Un’altra epocale domanda è quella di cercare di chiarire alcuni aspetti legati al futuro dell’umanità: i concetti di transumanesimo, di «intelligenza artificiale» offrono sì risorse, opportunità ma anche rischi per l’umanità. Già, ad esempio l’informatico Ray Kurzweil, afferma che nel 2045 ci sarà l’effettiva sostituzione dell’individuo con la tecnologia. L’opportunità di questa tecnologia, le chiedo, è più grande, può essere più grande rispetto ai rischi?

R.: «Viviamo in un’epoca segnata da una rivoluzione tecnologica che sta trasformando radicalmente le società umane. La diffusione dell’intelligenza artificiale, del transumanesimo e del Metaverso rappresenta non solo un avanzamento tecnico, ma anche e soprattutto una cesura culturale e sociale. Come ha sottolineato il sociologo Manuel Castells, la rivoluzione dell’informazione ha modificato la percezione del tempo, dello spazio e della relazione sociale, generando una “società in rete” dove l’esperienza umana è profondamente mediata dalla logica dei flussi digitali. Ma proprio perché la tecnologia si intreccia strettamente con il modo in cui comunichiamo e costruiamo il significato sociale, non può essere neutra né ridotta a semplice strumento: è parte integrante dei processi di cambiamento culturale.

La questione del rapporto tra opportunità e rischi dell’intelligenza artificiale è centrale. Da un lato, le potenzialità sono enormi: si pensi al contributo che l’AI può offrire in ambito sanitario, come già avviene in molti ospedali, o in quello educativo, con strumenti avanzati come la Maestra Genia, capace di affiancare lo studente in maniera personalizzata. Dall’altro, il rischio è che la tecnologia, se non governata, finisca per sostituire l’umano non solo nei compiti, ma nella relazione, nell’educazione, nella costruzione del senso. È qui che si inserisce la riflessione di studiosi come Shoshana Zuboff, che ha parlato di capitalismo della sorveglianza: l’AI non si limita ad assisterci, ma ci osserva, ci traccia, raccoglie e monetizza le nostre emozioni, preferenze, relazioni. Sui social network, ad esempio, le intelligenze artificiali alimentano un ciclo continuo di esposizione e approvazione, che modifica profondamente il modo in cui ci rappresentiamo e percepiamo. Come scrive il Professore Giovanni Boccia Artieri, siamo ormai collocati in una condizione di presenza mediale continua, dove il confine tra online e offline si dissolve, e il nostro comportamento cambia in funzione di una visibilità costante. È in questo contesto che nascono fenomeni come l’analfabetismo emotivo e l’emotivismo superficiale: non comunichiamo più emozioni autentiche, ma simulazioni di emozioni, progettate per ottenere “like” e consenso. La prospettiva di Ray Kurzweil, secondo cui nel 2045 l’essere umano potrebbe essere effettivamente sostituito dalla tecnologia, ci interroga sul senso profondo del progresso. La domanda non è se l’AI possa fare qualcosa meglio, ma a quale prezzo umano e sociale. Come sostiene il Professore Luciano Floridi, l’AI non deve diventare una “bolla tecnologica” guidata solo dal profitto: occorre invece una cultura consapevole, regolamentata, che sappia orientare l’innovazione dentro un quadro etico e democratico. Dal punto di vista sociologico, occorre comprendere come la società deciderà di sviluppare, distribuire e governare queste tecnologie. È una sfida culturale prima ancora che tecnica. La tecnologia non è un nemico, ma nemico può diventare un modello sociale che mercifica l’uomo, mette al centro il profitto, e dimentica la responsabilità educativa e relazionale. Il vero pericolo non è l’AI in sé, ma una società che non si pone le domande giuste: quanto vale la qualità rispetto alla quantità? Quanto conta l’etica nella corsa all’innovazione? E soprattutto: quale futuro vogliamo costruire?».

Il professor Francesco Pira con il grande sociologo Zygmunt Bauman

D.: Infine, l’attacco di Israele all’Iran è un altro «punto» basso, un altro «pezzo» di una “guerra mondiale a pezzi” che pare non lasciare speranze al bisogno di pace, di sicurezza che ottant’anni fa l’Organizzazione delle Nazioni Unite si è impegnata, dopo la Seconda guerra mondiale, a costruire?

«L’attacco di Israele all’Iran si inserisce in un contesto globale segnato da una crescente instabilità, che Papa Francesco aveva definito con grande lucidità come una “terza guerra mondiale a pezzi”. Questa espressione non è solo una metafora, ma una fotografia sociopolitica del nostro tempo, in cui i conflitti non esplodono in una sola grande guerra mondiale, ma si moltiplicano in scenari frammentati, diffusi, spesso non dichiarati ma profondamente distruttivi. La recente escalation tra Israele e Iran, culminata in una serie di attacchi aerei che hanno colpito siti militari, nucleari e infrastrutture civili, conferma quanto attualmente le promesse di pace e sicurezza fatte dopo la Seconda guerra mondiale siano drammaticamente in crisi. La sociologia ci aiuta a leggere questi conflitti non solo come scontri tra Stati, ma come sintomi di un ordine globale disgregato, in cui l’interesse nazionale, il potere militare e la sovranità assoluta prevalgono sui diritti umani, sul dialogo e sulla costruzione della pace.

L’attacco israeliano all’Iran è l’ennesimo tassello di una dinamica globale in cui le tensioni, le paure e le logiche di potenza sostituiscono la cooperazione. Ma ciò che rende questa fase storica ancora più inquietante è il ruolo che la tecnologia e l’intelligenza artificiale stanno assumendo nel campo bellico. Come ha denunciato con forza Papa Francesco, siamo ormai di fronte alla possibilità concreta che siano le macchine – e non più l’essere umano – a decidere chi deve vivere e chi deve morire. Le cosiddette armi letali autonome, se lasciate senza controllo umano, rappresentano non solo una minaccia etica, ma un pericolo per l’intera umanità. Il rischio è che la guerra diventi sempre più disumanizzata, automatizzata, programmata da algoritmi che rispondono a logiche di efficienza e strategia, non a principi morali o umanitari. In questa prospettiva, la sociologia della guerra e della pace non può limitarsi ad analizzare i conflitti sul piano geopolitico, ma deve interrogarsi anche su ciò che questi eventi dicono del nostro modo di vivere, di pensare, di convivere. Lo scontro tra Israele e l’Iran è anche una crisi di civiltà, una prova del fallimento della comunità internazionale nel costruire un ordine fondato sulla giustizia e sul rispetto reciproco. Come società globale, siamo chiamati a ripensare profondamente il nostro modello di sviluppo, il nostro rapporto con la tecnologia e soprattutto il nostro modo di affrontare le differenze, i dissensi, le paure. Eppure, nonostante tutto, non possiamo rinunciare all’idea di pace. Proprio quando il mondo sembra sul punto di precipitare, la sociologia ci invita a mantenere viva la speranza razionale: quella che nasce dalla consapevolezza, dalla riflessione critica, dalla responsabilità condivisa. La diplomazia, se sostenuta da una reale volontà politica, può ancora prevenire l’irreparabile. E il diritto internazionale, se rispettato, può contenere la barbarie. Sì, l’attacco di Israele all’Iran è un nuovo “pezzo” di quella guerra mondiale a frammenti che stiamo vivendo. Ma non possiamo smettere di credere – e soprattutto di agire – affinché la pace torni ad essere non solo un ideale, ma una realtà concreta, costruita ogni giorno da governi, istituzioni e cittadini consapevoli. Bisogna mettere l’uomo – con la sua dignità, la sua fragilità e la sua responsabilità – al centro della storia».

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