La sera del 3 ottobre 1226, dopo aver aggiunto gli ultimi versi al suo Cantico delle creature, i «versetti del perdono» (Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore, et sostengo infirmitate et tribulatione. Beati quelli che ‘l sosterrano in pace, ca da te, Altissimo, sirano incoronati) (san) Francesco d’Assisi muore. La vita, le parole, gli scritti del Poverello d’Assisi, proclamato santo a meno di due anni dalla morte da papa Gregorio IX il 16 luglio 1228, sono una lezione di semplicità, di humanitas, di audacia che stiamo smarrendo. Francesco negli anni 1219-1220 approda in Palestina e in Egitto, dove si presenta al sultano egiziano Al-Malik al Kamil nei pressi del fiume Nilo, che lo riceve con onore, che lo ascolta con interesse. L’incontro tra il sultano e san Francesco dimostra la potenza, l’efficacia del dialogo. Un dia-logo che diventa fecondo in quanto si incastona nell’humus della parabola dell’amore, parola-ponte, architrave, fondamento delle tre religioni monoteiste, che hanno in Abramo (Ibrāhīm) la loro radice.
Dal messaggio evangelico, ecumenico di san Francesco sgorga la pace. L’artigianato della pace. Le religioni, tutte le religioni sono chiamate a maggiore audacia. Il mondo ha sete di pace. Bisogna, ricorda il professore Andrea Riccardi, “eliminare per sempre la guerra che la madre di ogni povertà”. Nel dialogo, nelle parole c’è, si trova il cuore della pace. Il dialogo svela che la guerra e le incomprensioni non sono invincibili. Niente è perduto con il dialogo. Tutto è possibile con la pace!
Al di là delle idee che ognuno di noi si è fatta, il viaggio-missione umanitaria della Flottilla interroga le nostre coscienze, le nostre anime. Non può non sollevare interrogativi sul senso di “lasciare un segno” in quanto uomini di buona volontà. Nell’indifferenza quasi generale le guerre in Palestina, Sudan, Siria, Ucraina e in tanti altri Paesi nel mondo figurano quella che, già nel 2014, papa Francesco chiamava una «guerra mondiale a pezzi». Siamo nel bel mezzo di una crisi internazionale, e lo siamo in uno stato di debolezza e fragilità.
Per aiutarci a comprendere al meglio le nostre fragilità, le nostre indifferenze che stanno attraversando la politica, la coscienza, la morale del nostro Occidente chiediamo un aiuto al professore Francesco Pira, Associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi dell’Università degli Studi di Messina, saggista e giornalista.

D.: La Flottila può rappresentare un viaggio-chiave che può scrollarci di dosso le nostre fragilità, le nostre indifferenze?
R: «La Flottila scuote le nostre fragilità e mette in discussione l’indifferenza che caratterizza spesso il nostro modo di affrontare le crisi umanitarie. La nostra è una realtà comunicativa complicata, in cui i media e le narrazioni polarizzate tendono a dividere l’opinione pubblica, spingendo verso schieramenti netti che oscurano il dialogo e la comprensione reciproca. In questo contesto, la cultura dell’indifferenza — quel meccanismo sociale che ci allontana dalla sofferenza altrui, soprattutto quando sembra lontana dalla nostra realtà — rimane una delle sfide più difficili da superare. L’azione concreta della Flottila, attraverso un gesto di solidarietà e vicinanza, rompe
questo muro di distacco, richiamandoci alla responsabilità reciproca e alla necessità di riconoscere l’umanità nell’altro, indipendentemente da divisioni politiche o geografiche. Tuttavia, perché questo gesto abbia un impatto reale, deve essere capito e comunicato come parte di un impegno più ampio, che pone al centro il valore della vita umana e la ricerca della pace, andando oltre semplificazioni di giusto e sbagliato.
La Flottila ci invita a ripensare i legami sociali e le modalità con cui ci occupiamo degli altri, sfidando la cultura dell’egoismo e recuperando una dimensione etica e comunicativa che ponga al centro la dignità di ogni persona».

D.: Oggi come oggi che fine hanno i principi evangelici dell’amore, delle Beatitudini? I principi illuministici della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789? Dov’è la dignità dell’uomo e soprattutto dei bambini distrutta, annientata, violentata dalle guerre?
R: «Adesso più che mai, i principi evangelici dell’amore e delle Beatitudini, così come quelli illuministici della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, sembrano sopravvivere più come richiami simbolici che come linee guida effettive per la vita collettiva. Viviamo in una società globale attraversata da complessità crescenti, disuguaglianze profonde e una costante esposizione mediatica dell’esperienza umana. In questo contesto, quei riferimenti etici originari appaiono spesso svuotati della loro forza morale e della capacità di orientare le scelte sociali. La modernità liquida, come la definisce Bauman, ha reso instabili le cornici valoriali che un tempo offrivano senso e coerenza alla convivenza: oggi l’individualismo, la frammentazione e la logica dell’immediatezza – tipica della cultura digitale – rendono sempre più difficile costruire un’etica condivisa, basata sull’amore per l’altro e sul riconoscimento della sua dignità. La comunicazione contemporanea, veloce e spettacolare per natura, tende a indebolire l’impatto delle immagini del dolore, anche quando riguardano i bambini. Il rischio non è solo quello di abituarsi alla sofferenza, ma anche di trasformarla in spettacolo, allontanandoci da un senso autentico di responsabilità comune. Nelle guerre, nei flussi migratori, nella povertà educativa, la dignità umana – in particolare quella dei più piccoli – continua a essere negata, rivelando una profonda distanza tra la proclamazione formale dei diritti e la loro concreta applicazione. Da studioso della società, osservo come i valori siano oggi costantemente riscritti, manipolati o messi da parte. Quelli che un tempo erano carichi di senso morale rischiano di ridursi a semplici slogan, privi di reale forza trasformativa. Eppure, questi principi non sono scomparsi del tutto: sopravvivono nei movimenti sociali, nei gesti quotidiani di solidarietà, nei percorsi educativi che promuovono il riconoscimento dell’altro e nelle lotte per la giustizia. Spetta a tutti noi il compito di riportarli al centro del discorso pubblico, restituendo voce e visibilità a coloro che, nel tempo, ne sono stati esclusi».

D.: Quale suggerimento, quale aiuto possiamo trarre dalla lezione di san Francesco che sta tutta nella fratellanza tra l’Uomo e la Natura e non del dominio dell’Uomo sulla natura. Una grande lezione che mira al vero ben-essere dell’Uomo. La lezione di Francesco quale dinamiche di sviluppo può offrire per “riparare la nostra casa-mondo che sta andando in rovina”?
R: «La lezione di san Francesco, fondata sulla fratellanza tra l’uomo e la natura, ci propone un modo diverso di abitare il mondo. Invece di considerare la natura come qualcosa da dominare o
sfruttare, ci invita a riconoscerla come parte di una relazione viva, fatta di rispetto e reciprocità. In un momento storico segnato da disastri climatici e tensioni sociali, questo messaggio ci aiuta a rimettere al centro il legame profondo tra benessere umano e salute del pianeta.
Non si tratta solo di un ideale spirituale, ma di una visione culturale capace di influenzare comportamenti, immaginari e forme di convivenza. Francesco ci offre una prospettiva che rompe con l’idea di progresso come accumulo e crescita senza limiti, e apre invece alla possibilità di uno sviluppo fondato sulla cura, sull’equilibrio e sulla sobrietà. “Riparare la casa-mondo” non vuol dire solo intervenire sulle ferite del pianeta, ma anche trasformare i modi in cui pensiamo, parliamo e immaginiamo il nostro posto nel mondo. La proposta francescana può ispirare pratiche quotidiane più consapevoli, modi diversi di raccontare l’ambiente e forme di partecipazione che aiutino a costruire un futuro più giusto e sostenibile per tutti».
Il giornale on line Il salto della quaglia augura buon onomastico al professore Francesco Pira, a mio papà e a quanti portano il nome di Francesco.