La passione civile e letteraria di Dante raccontata da Dario Stazzone

Articolo di Pietro Salvatore Reina

Celebrato per la prima volta nel 2020, il Dantedì, ossia la Giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri, il Sommo Poeta, celebrata avantieri, è stata una giornata costellata da centinaia di iniziative, letture, maratone, ecc. Attività che anche quest’anno, in cui si ricorda il settecentesimo anniversario della morte (1321-2021) del poeta, molte di esse sono state «virtuali».

In questo articolo/intervista al dottor Dario Stazzone, dottore di ricerca in Italianistica e Presidente del Comitato di Catania della Società Dante Alighieri ripasseremo non solo la conoscenza di Dante ma soprattutto la sua lezione/monito – che il professore Stazzone riafferma – contro la pusillanimità e il chiudersi nel proprio interesse particolare. La biografia e la poesia dantesca sono una parabola, una «figura», un «archetipo» della vita umana ma soprattutto della conoscenza come salvezza.

D.: Può raccontarci, professore Dario Stazzone, a quando risale il suo primo incontro con il poeta Dante (Durante) Alighieri? Come e cosa ricorda?

R.: Prima che oggetto di studio Dante è stato per me la musicalità dei versi che sentivo durante l’infanzia, le citazioni di mio nonno materno che, con ottima memoria, recitava le terzine della Commedia sottolineandone l’importanza. Mio nonno, nato nel 1906 e morto nel 1999, ha letteralmente attraversato il Novecento, è stato compagno di classe di Vitaliano Brancati ed ha avuto docenti del calibro di Vito Mar Nicolosi: per la sua generazione Dante era un mito identitario fortemente sentito. Il momento in cui ho iniziato a studiare realmente Dante è stato, ovviamente, il liceo: dopo gli anni duri e fondativi del ginnasio il liceo si apriva allo studio esaltante delle letterature, la letteratura greca e latina, i classici auctores, la letteratura italiana fin dalle origini e la Commedia. Ho ripensato spesso a quell’incontro: a sedici anni si legge con passione la prima cantica, l’Inferno, a diciassette il Purgatorio e l’ultimo anno, l’anno della Maturità, ci si confronta col Paradiso. Le terzine dantesche, il loro particolare ritmo, la terza rima, persino l’asprezza petrosa di alcuni versi della prima cantica diventano così memoria fonetica della nostra adolescenza e della prima giovinezza (lo stesso diceva Pasolini per la musicalità del greco antico). Certo, negli anni ho continuato lo studio: i corsi di Lettera italiana per la prima laurea, i corsi di Filologia e critica dantesca per la prima e la seconda laurea, gli infiniti ritorni a Dante, ma è impossibile dimenticare la forza dell’impatto della Commedia nella nostra adolescenza, nell’età germinale in cui tutto assume il significato della scoperta e si concepiscono le passioni che ci accompagneranno nel viaggio dell’esistenza.

D.: Quale rima, terzina o frase dantesca ha guidato e guida il suo quotidiano lavoro di docente e studioso?

R.: Non vorrei sembrare banale, ma medito spesso i canti e i versi che si confrontano col problema della conoscenza. Nel VI canto dell’Inferno, ad una domanda di Dante, Virgilio risponde esortandolo a ritornare al suo sapere: «Ritorna a tua scïenza, / che vuol, quanto la cosa è più perfetta, / più senta il bene, e così la doglienza». Virgilio è la figura ideale di maestro, esercita una vera maieutica, spesso suggerisce le risposte piuttosto che darle nella loro interezza, esorta Dante al ragionamento, al discernimento critico, lo sferza persino condannandone i limiti di mortale: così discutendo della Fortuna intesa come intelligenza angelica. In fondo le tre cantiche dantesche sono esse stesse sintesi del sapere di un’epoca, esposto non in modo sistematico come nel Convivio o nel De vulgari eloquentia, ma attraverso la parola poetica, la parola investita di affettività. Per questo comunicano con tanta forza ed hanno una profonda risonanza in noi. Ovviamente nel discorso relativo alla conoscenza è centrale il XXVI canto dell’Inferno, il canto di Ulisse. Come ha scritto Boitani l’eroe omerico costituisce un «discorso» della civiltà occidentale, un archetipo mitico che si sviluppa nella storia e nella letteratura come un costante logos culturale. Per parafrasare Bernard Andreae Ulisse rappresenta l’«archeologia» dell’immagine europea dell’uomo. Narrando di Ulisse che non torna alla sua petrosa Itaca Dante fa i conti con se stesso, col suo desiderio di conoscenza: per l’uomo medievale eccedere i limiti, simbolicamente rappresentati dalle colonne d’Ercole, andare cioè oltre le auctoritates, significava cadere nella mera curiositas, non attingere alla sapientia. Ma lo slancio verso la conoscenza è spesso incontenibile. Dante lo sapeva bene, aveva sofferto il peso fisico dello studio, lamentava quel dolore agli occhi che lo faceva particolarmente devoto di Santa Lucia. Nello studio, nella passione per la conoscenza ci si può perdere. Il sistema di contrappasso della prima cantica afferma un’etica della misura, basti pensare ai primi gironi infernali: l’incontinenza nella ricchezza assume due aspetti specularmente opposti, l’avarizia e la prodigalità, lo stesso accade con la violenza: ad essere condannati sono sia gli iracondi che gli accidiosi. Se il canto di Ulisse afferma la necessità della misura nella conoscenza è pur vero che in esso ne viene affermato il suo irrinunciabile valore civilizzatore: «Considerate la vostra semenza: /fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza».

D.: La figura di Dante come uomo e letterato è davvero piena e completa: un politico, un poeta e scrittore, un esule con prole al seguito, un condannato a morte sempre alla ricerca della giustizia. Cosa quest’uomo oggi può davvero insegnare? Ovvero quale segno nella vita dei giovani e dei meno giovani può porre?

R.: Una prima considerazione, di carattere letterario e linguistico: le tre cantiche ci dicono che nulla può essere escluso dal territorio letterario. Questo aspetto contenutistico, veramente rivoluzionario, ha un’esatta corrispondenza nella lingua, nell’enorme estensione lessicale della Commedia, dal basso, spurio, corporale, persino scatologico dell’Inferno fino alla tensione teologica del Paradiso, fino all’ammissione di una cospicua difficoltà di dire, di un’impossibilità della parola: «Trasumanar significar per verba / non si poria…». Dante procede dall’imbestiamento infernale fino alle altezze celesti, offre un modello opposto alla monotonia tematica, al selezionato lessico dell’amore e del desiderio di Petrarca. Oggi Dante torna nella sua modernità, nella sua forza lessicale e semantica, nella pittorialità da cui scaturiscono, anche in occasione di questo anniversario, infiniti percorsi creativi, artistici, pittorici e visuali. Tutta l’opera dantesca, la biografia così appassionata del poeta è un monito contro la pusillanimità e il chiudersi nel proprio interesse particolare. Per Dante essere buon cristiano significava essere un buon cittadino, significava partecipare, parteggiare e lottare. Una significativa esortazione in questa nostra epoca di passività sociale, di cultura della delega, di incapacità di guardare al bene comune. La migliore letteratura italiana è stata letteratura dell’indignatio politica, dalla Commedia alla canzone Italia mia di Petrarca, dal vibrante explicit del Principe di Machiavelli alle canzoni eroiche di Leopardi del 1818, per non dire del tentativo foscoliano di fondare una religio civile. Dante ce ne dà un esempio altissimo nel VI canto del Purgatorio. In fondo l’Italia migliore è sempre stata quella della penna, della cultura e dell’arte. Contrapposta all’Italia avvilente della politica, all’inadeguatezza, troppo spesso palese, delle sue classi politiche e dirigenti. Che la tensione civile di Dante, il suo amore per l’«umile Italia» possano ispirarci e ispirino i più giovani. Si realizzerà mai la profezia del veltro?

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