Immanuel Kant. A 300 anni dalla nascita

Articolo di Salvatore Distefano

Mai come ora l’intero genere umano è a rischio estinzione. Mai come ora la Terza Guerra mondiale a pezzi, come l’ha definita il papa già qualche anno fa, potrebbe diventare la Terza Guerra Mondiale tout-court, che molto probabilmente verrebbe combattuta ricorrendo alle armi atomiche e metterebbe a rischio la sopravvivenza dell’intera umanità. Mai come ora “[…] la fatuità e la noia che invadono ciò che ancor sussiste, l’indeterminato presentimento di un ignoto, sono segni forieri di un qualche cosa di diverso che è in marcia.” (Hegel)

In questa fase storica il numero dei conflitti armati nel Mondo è il più alto dalla Seconda Guerra mondiale e due miliardi di esseri umani, uno su quattro degli esseri umani che vivono sul pianeta Terra, abitano in Paesi che sono coinvolti nei conflitti. Le spese militari globali non sono mai state così alte: più di duemiladuecento miliardi di euro all’anno (cresciute del 4% in termini reali dall’anno scorso). Tutto ciò mentre il mondo si divide sempre più in due grandi aree: una che fa capo all’Occidente, dove vige un sistema incentrato sull’economia di mercato, sulla concorrenza, l’individualismo e la proprietà privata capitalistica; l’altra che, come ha affermato lo scienziato Carlo Rovelli, forma una “galassia” molto composita, per certi versi disomogenea e discordante, ma che si ricompatta contro le forti diseguaglianze e le ingiustizie provocate dall’Occidente. Del resto, non basta più farsi scudo della vuota retorica delle “democrazie contro gli stati autoritari”. E, aggiungo io, aggravata dalla arroganza occidentale che assume surrettiziamente la “prova ontologica” di Anselmo d’Aosta, il quale, nel “Proslogion”, ‘dimostrava’ l’esistenza di Dio muovendo dal semplice concetto di Dio. Contro lo sciocco del XIII Salmo che diceva in cuor suo “Dio non c’è”, per Anselmo anche il negatore dell’esistenza di Dio doveva possedere il concetto di Dio, essendo impossibile negare la realtà di qualcosa che non si pensa neppure e dato che il concetto di Dio è quello di un essere di cui non si può pensare nulla di maggiore (quo maius cogitari nequit), anche lo sciocco doveva ammetterne l’esistenza. L’Occidente, forse a sua insaputa?!, segue un simile schema logico-ideologico e così al suo concetto – Occidente – fa seguire le definizioni che ci danno “il migliore dei mondi possibili”: libertà, democrazia, pace, benessere, sviluppo, felicità, e via dicendo; in sostanza, il paradiso scende sulla Terra appena si pronuncia la parola Occidente, anche se la realtà, fondata sull’inoppugnabile esperienza, ci dice, purtroppo, il contrario. Di più: per il tramite di un consolidato slittamento semantico dei termini e del linguaggio nel suo complesso, basti pensare a “1984” di George Orwell, assistiamo continuamente al rovesciamento del significato delle parole e di conseguenza della realtà.

Ma noi in questa occasione vogliamo ragionare di pace e vogliamo che il 2024 sia foriero di un mondo migliore, capace di “reinvertire l’invertito corso del mondo” (di nuovo Hegel!) e di allontanare la prospettiva del conflitto globale. Per raggiungere questo traguardo è indispensabile uno sforzo tremendo perché la civiltà umana potrebbe essere distrutta da una guerra combattuta con l’arma atomica, come affermò Einstein già nel 1945.

Non sembri strano, allora, che per affrontare questioni così importanti per l’intera umanità preferiamo dare la parola a un grandissimo pensatore, Immanuel Kant, nato trecento anni fa, il 22 aprile 1724, a Koenigsberg, allora capoluogo della Prussia orientale, oggi la città russa di Kaliningrad, exclave tra Polonia e Lituania, così chiamata il 4 luglio del 1946 in memoria del rivoluzionario e politico bolscevico M. I. Kalinin. Alla fine del 1945, la città entrò a far parte dell’Unione Sovietica (URSS) sulla base degli accordi di pace definiti dagli Alleati alla Conferenza di Potsdam, cioè dallo schieramento antifascista formato principalmente da Gran Bretagna, Unione Sovietica e Stati Uniti, che aveva sconfitto il nazifascismo nella Seconda Guerra Mondiale.

Kant fu educato secondo lo spirito del pietismo nel Collegium Fridericianum; nel 1755 ottenne la libera docenza presso l’Università di Koenigsberg tenendo corsi su varie discipline e come libero docente egli insegnò all’Università fino al 1770, anno in cui vinse l’ordinariato con la dissertazione De mundi sensibilis atque intellegibilis forma et principiis. I decenni successivi costituiscono il momento decisivo nella elaborazione del sistema kantiano: è infatti il periodo nel quale nacquero la Critica della Ragion Pura (1781), la Critica della Ragion Pratica (1788) e la Critica del Giudizio (1790).

L’aneddotica che circolò sin da subito su di lui lo mostra nei suoi aspetti più fascinosi: non si allontanò mai da Koenigsberg; fu prussianamente metodico, molto scrupoloso e abitudinario, sempre puntualissimo alle lezioni e ligio ai suoi doveri. Johann Gottfried Herder, che fu suo scolaro negli anni 1762-1764, ci ha lasciato questa immagine di lui: «Io ho avuto la felicità di conoscere un filosofo, che fu mio maestro. […] La sua fronte aperta, costruita per il pensiero, era la sede di una imperturbabile serenità e gioia; il discorso più ricco di pensiero fluiva dalle sue labbra; aveva sempre pronto lo scherzo, l’arguzia e l’umorismo, e la sua lezione erudita aveva l’andamento più divertente. […] Egli incoraggiava e costringeva dolcemente a pensare da sé; il dispotismo era estraneo al suo spirito. Quest’uomo, che io nomino con la massima gratitudine e venerazione, è Immanuel Kant: la sua immagine mi sta sempre dinanzi».

Non dimentichiamo allora, in questi giorni così difficili per il genere umano e per l’intero pianeta, che il prossimo lunedì 22 aprile tutto il mondo celebrerà i 300 anni della nascita del fondatore del Criticismo, citando un bellissimo testo a proposito della pace, definita in quest’opera “perpetua”, per distinguerla dalle paci che si erano susseguite fino a quel momento. È noi possiamo confermare perché fino ad oggi è andata così: la pace concepita come un periodo di tregua tra una guerra e l’altra, la pace che “attende la guerra che verrà”. Ma vogliamo, riscoprendo questa parte meno approfondita del suo pensiero, lanciare un grido di allarme a tutto il mondo affinché capisca che dopo Hiroshima e Nagasaki, con le migliaia di armi atomiche assemblate negli arsenali dei paesi del cosiddetto “club atomico, in primo luogo Stati Uniti e Russia, e con il predominio in molti stati di quello che il presidente statunitense Dwight Eisenhower definì il <<complesso militare-industriale>>, “la guerra che verrà” potrebbe essere l’ultima.

Ecco dunque l’attualità di Kant e spiegato il titolo geniale che egli diede al suo scritto “Per la pace perpetua. Un progetto filosofico”: per fare ciò, resta fondamentale l’idea che l’analisi delle cause oggettive dei conflitti sociali e internazionali e l’agire concreto per il riconoscimento dei diritti fondamentali di ogni persona siano premessa ineludibile all’eliminazione della violenza e alla realizzazione di una pace durevole. Occorre, dunque, battersi per la pace, come del resto afferma senza se e senza ma la nostra Costituzione – in particolare l’articolo 11:” L’Italia ripudia la guerra…” -, che ha un impianto complessivamente pacifista (ricordo che il 1° gennaio scorso la Costituzione ha compiuto 76 anni).

Il progetto della pace perpetua non è concepito da Kant come un’utopia: nulla è più estraneo alla mente di Kant che il pensiero utopico; delle utopie in genere dice che è dolce immaginarle, ma temerario proporle e colpevole sollevare il popolo per cercare di attuarle. Kant non è un utopista perché usa incalzanti argomentazioni che stabiliscono l’analogia tra la conflittualità all’interno della società, risolta nel contratto sociale, e quella tra gli stati-nazione risolta nell’arena internazionale. È evidente l’applicazione del contrattualismo in virtù del parallelismo tra razionalità degli individui e razionalità degli stati. Non è chi non vede il riferimento al pensiero platonico, e in particolare alla concezione politica del filosofo delle Idee, secondo il quale esisteva un preciso rapporto tra individuo, inteso come anima, polis (stato), e divisione in classi della stessa città (società): produttori (lavoro manuale, banausicità), soldati (difensori), filosofi (governo, razionalità); quindi, la condanna della guerra da parte della ragione moralmente legislatrice implica la concreta possibilità del raggiungimento della pace alla stregua di un dovere immediato, senza alcuna concessione ad “astratte” prospettive utopiche. Il suo progetto di pacifismo giuridico non è solo ancorato saldamente a una filosofia della storia, ma è anche reso coerente dallo sfondo più ampio della sua teoria etica. Il fine della storia sociale umana è la costituzione di una società giuridica che abbracci tutta l’umanità, e che in quanto tale garantisca, insieme con la pace universale, la libertà di tutti gli individui viventi sulla terra. I filosofi, afferma Kant, non devono fare propaganda; essi devono, piuttosto, esercitare la funzione intellettuale. In questo caso devono pensare l’impossibilità della guerra e l’inevitabilità della pace e cercare di comunicare ciò ad altri che, con loro, condividono un mondo che ha conosciuto finora, e presumibilmente conoscerà ancora, la crudeltà della stupidità e della barbarie. Del resto, se questo progetto filosofico non si realizzasse la scritta che campeggia sull’insegna di un’osteria olandese, su cui era dipinto un cimitero, rischierebbe di valere non solo per i capi di stato che “non riescono mai a saziarsi delle guerre”, o per “i filosofi che hanno quel dolce sogno”, ma soprattutto “per gli uomini in generale”.

Qualcuno giudica inattuale il testo di Kant. Noi, al contrario, lo riteniamo di stringente attualità. Uno scritto che mantiene a tutt’oggi grande importanza, come dimostrano i dibattiti spigolosi suscitati dai neocon d’oltre Oceano che tentano di collocare Kant tra gli utopisti, in un paradiso post-moderno; sono quelli che si attardano in negoziati, regole e trattati, mentre loro americani, operano in una realtà hobbesiana dove la sopravvivenza dipende dalla forza delle armi. Non è chi non veda, allora, come lo scritto di Kant debba essere principalmente rivolto ai giovani per far sorgere nelle nuove generazioni una visione razionale, cosmopolita e progressista, secondo un processo storico che affida agli esseri umani un ruolo centrale, nell’ottica kantiana della forte sottolineatura della soggettività e del suo rapporto col mondo.

Ma cos’è l’uomo per il fondatore del Criticismo? Un essere bidimensionale, composito, che deve farsi guidare da quella parte della propria interiorità che è la ragione, anche se l’uomo nasce afflitto dal male radicale e deve compiere un enorme sforzo su se stesso e imporsi la virtù affinché raggiunga il fine che si è dato, che è l’uomo stesso, il rispetto della sua essenza e della sua dignità, il suo perfezionamento continuo: il fine superiore è l’uomo e in questo senso il filosofo di Koenigsberg si rivela il continuatore degli ideali più alti di tutto l’Umanesimo e del Rinascimento, nonché della moderna civiltà europea. Kant per dare più forza alle sue argomentazioni, rifacendosi a Hobbes, ritiene indispensabile passare, per quanto riguarda il genere umano, dallo stato di natura allo stato civile e fuoriuscire dalla condizione del bellum omnium contra omnes onde evitare la totale distruzione dello stesso genere umano. Per conquistare questo traguardo solitamente si ricordano alcune regole: la prima, comanda di sforzarsi di cercare la pace (pax est quaerenda), la seconda impone di rinunciare al diritto su tutto (ius in omnia est retinendum), la terza afferma che bisogna stare ai patti (pacta sunt servanda). Anche Spinoza funge da ispiratore per la elaborazione kantiana: si deve giungere al patto sociale non foss’altro perché, senza il reciproco aiuto, essi non potrebbero vivere agevolmente, né coltivare il loro spirito. Questa posizione, che, per certi versi, è mutuata dall’indirizzo giusnaturalistico e da quello hobbesiano, esplicita una sostanziale differenza derivata dalla concezione spinoziana della natura e dell’uomo, da cui dipende la nozione fondamentale di “diritto”.

LA FILOSOFIA DELLA STORIA

La filosofia della storia assume sempre più importanza anche per l’influsso esercitato su Kant dalla Rivoluzione francese, il cui significato epocale non poteva certo sfuggire al filosofo tedesco che coniuga la profondità della riflessione filosofica con una attenta osservazione della realtà del suo tempo. Kant si chiede se sia possibile individuare una direzione e una meta della storia dell’umanità o se, invece, la storia sia soltanto un disordinato e casuale elenco di eventi senza un senso preciso; oppure porre il senso come se fosse orientato a un fine, anche se il concetto di fine non appartiene all’ambito della conoscenza teoretica che ha per oggetto i fenomeni (il problema del limite in Kant). Del resto, la vita associata deriva dalla “insocievole socievolezza”, che spinge gli uomini ad unirsi in società, anche se a questa tendenza si contrappone un “naturale egoismo”: pertanto, antagonismo e desiderio di autoaffermazione svolgono la funzione positiva di stimolo del progresso. Ecco perché il cammino che dalla barbarie conduce alla civiltà non è individuale, ma può essere percorso soltanto collettivamente: gli esseri umani possono perfezionarsi solo all’interno della società. Così come gli alberi che se fossero isolati crescerebbero storti e deformi, in una foresta, costretti dalla vicinanza a lottare per sottrarsi a vicenda aria e luce, si allungano dritti e verso l’alto.

COSA SOSTIENE NELLO SCRITTO “PER LA PACE PERPETUA”

Nel testo kantiano resta fondamentale l’idea dell’analisi delle cause materiali dei conflitti e del superamento del modello antropologico: l’idea cioè che la responsabilità della guerra sia immediatamente imputabile alla natura dell’uomo è irreversibilmente superata ed infatti chiama in causa la struttura dell’ordine internazionale, in pratica l’ancien régime. Vi è un richiamo della visione machiavelliana della critica a partire dalla comprensione della realtà e di quella rousseauviana del nesso causale tra monarchia assoluta e politica di potenza, del legame tra ambito interno dello stato e quadro politico internazionale. Sullo sfondo si intravvede l’idea di una politica che porti al rilancio di organismi internazionali (vien fatto di pensare all’attuale debolezza e addirittura impotenza dell’Onu), che possano e sappiano rilanciare le vie diplomatiche per la risoluzione delle controversie internazionali e consentano di assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni. Si tratta di una visione affascinante, di tipo cosmopolita e nettamente progressista nella quale si mette a tema il processo che interessa la natura e l’uomo. Dunque, occorre passare dalla libertà selvaggia degli stati all’affermazione di un ideale cosmopolitico per un’umanità interamente pacificata come viene preconizzato nella filosofia antica e nell’ecumenismo cristiano, teso alla realizzazione del proprio contrario – appunto la pace – e quindi alla propria soppressione.

ARTICOLI DEFINITIVI PER LA PACE PERPETUA TRA GLI STATI

Kant sostiene nel Primo articolo definitivo per la pace perpetua che In ogni stato la costituzione deve essere repubblicana. È un’affermazione di straordinaria portata se pensiamo che viene pronunciata alla fine del Settecento, quando la stragrande maggioranza dei Paesi erano monarchici (e per giunta assolutisti); ma solo la costituzione repubblicana ha la prospettiva di “quell’esito desiderato, la pace perpetua”. Infatti, dove “il sovrano non è il concittadino, ma il proprietario dello Stato, e la guerra non toccherà minimamente i suoi banchetti e le sue battute di caccia, i suoi castelli in campagna, le sue feste di corte e così via, e può allora dichiarare la guerra come una specie di gara di piacere per futili motivi e, per rispetto delle forme, affidare con indifferenza al corpo diplomatico, sempre pronto a questa bisogna, il compito di giustificarla.”

Il Secondo articolo definitivo per la pace perpetua recita Il diritto internazionale deve fondarsi su un federalismo di liberi Stati. In questo caso, Kant può dirsi il preconizzatore degli organismi internazionali, come la Società delle nazioni e l’ONU, che nel Novecento e nel Terzo Millennio hanno tentato faticosamente di garantire la pace tra gli Stati. Infine, nel Terzo articolo definitivo per la pace perpetua il Nostro autore propone che Il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni dell’ospitalità universale, e non è chi non vede l’attualità di questa posizione in un mondo nel quale migrazioni di massa, milioni di profughi in fuga da Paesi in guerra, distruzioni provocate da conflitti decennali e tutto ciò che è foriero di violenta contrapposizione sembra non trovare soluzione proprio perché si è smarrita la strada che Kant, invece, vorrebbe che fosse imboccata. Non si tratta solo di un diritto di accoglienza a cui lo straniero possa appellarsi, ma, come sostiene il pensatore prussiano, di “ un diritto di visita, che spetta a tutti gli uomini, il diritto di offrire la loro società in virtù del diritto della proprietà comune della superficie terrestre, sulla quale, in quanto sferica, gli uomini non possono disperdersi all’infinito, ma alla fine devono sopportare di stare l’uno a fianco all’altro; originariamente però nessuno ha più diritto di un altro ad abitare una località della Terra.” Infine, possiamo dire che a Kant, anche in polemica, seppure molto raffinata, con Platone, non sembra essenziale che i filosofi diventino governanti; importa, invece, che possano parlare pubblicamente affinché non risulti corrotta la libertà di giudizio della ragione.

In conclusione, ci piace citare Erasmo da Rotterdam che negli “Adagia”, monumentale enciclopedia della cultura classica organizzata intorno a motti, detti, proverbi della più diversa provenienza, alla quale egli continuò ad attingere nel corso della propria vita, scriveva:” Dolce è la guerra per chi non ne ha esperienza. […] La citazione viene da Pindaro, là dove dice che la guerra è gradita a chi non l’ha sperimentata, ma chi l’ha provata avverte un enorme orrore nel suo cuore”.

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