Storia di ricordi lontani

Articolo di Gordiano Lupi

Antonio soffriva come ogni giorno il caldo soffocante dell’altoforno, portava avanti il solito lavoro, momenti ripetuti, monotona catena di gesti senza tempo. Divideva con i compagni una giornata di sudore per un salario che permetteva di pagare due stanze in affitto nella chiostra di un condominio popolare annerito dai fumi della ferriera, oltre a sbarcare il lunario con una mensa composta da molto pane e poco companatico. I giorni passavano, lui doveva alimentare una macchina infernale, un mostro d’acciaio che divorava carbone, restituendo fumo e prodotto grezzo per mantenere famiglie operaie. Pane e fumo, dicevano i vecchi, doveva esser proprio vero, forse era la formula giusta, lontano dai campi e da turni di lavoro infiniti.

Antonio si guardava le mani indurite e pensava alla sua terra, agli olivi che aveva abbandonato, alla madre che parlava con le amiche sulla porta di casa in un piccolo borgo alle pendici d’un monte. Rammentava la sua festa preferita, la sagra delle ciliegie nei giorni di maggio, un colore rosso che tingeva il borgo, frammisto a buon odore e antichi sapori. Ripensava agli occhi allegri di bambino mentre correva insieme agli amici a rubare ciliegie, sporcandosi la bocca e il viso, sistemando a coppia i piccoli frutti tra le orecchie come fossero campanelle. I campi da coltivare e i crucci del padre, che faceva la spola per tutta la vallata, da Sinalunga a Montalcino, passando per Pienza e San Quirico D’Orcia, con un asino carico di legna per il camino di casa. La sua casa sempre viva, con lui e il fratello che giocavano a nascondersi, facendo impazzire la madre e la nonna che sgranava il rosario dondolando una sedia di bambù. Erano le sue radici, sradicate per attraversare strade polverose, rumori di siviere, finti tramonti, colate continue, residui ferrosi e lotte quotidiane. Le sue gambe che correvano leste per le strade del mondo gli avevano permesso di lasciare il vecchio borgo per un lavoro lontano, portando nel cuore un desiderio d’avventura, la voglia di fare fortuna in terre sconosciute.

Nonno Antonio Bindani e sua moglie Adelina Andreuccetti

Terracina e il Golfo di Gaeta erano le fotografie d’un passato nascosto negli angoli più riposti del cuore, così come comparivano davanti ai suoi occhi esterrefatti i pini sul lungomare di Formia, qualcosa di grande e perduto che aveva lasciato su lidi assolati d’antico meridione: il ricordo dei primi baci rubati, del primo amore, abbandonato in cambio d’una nave salpata in direzione America.

“Antonio, perché devi lasciarmi? Non possiamo costruire insieme il futuro?”. Aveva detto Caterina al toscanino – soprannome dovuto a una statura non imponente – che aveva già deciso di prendere quel battello che l’avrebbe portato via per sempre, lontano da occhi innamorati. Antonio aveva scosso la testa e si era limitato a cantare con voce sognante pochi versi che un avvocato di Terracina aveva composto sul loro amore, rendendo ancor più doloroso un inevitabile addio. Non si poteva pretendere un perdono da un cuore in pena come non sarebbe stato giusto illudere in merito a un impossibile ritorno.

Il rumore dell’altoforno non disturbava i suoi pensieri, anzi li cullava nel silenzio della sera, tra luci soffuse e un soffio di maestrale, quando nelle pause di lavoro, prima di andare a mensa e in attesa del cambio turno, accendeva un mezzo toscano e si metteva a fumare ricordando giorni lontani. Ricordi lasciavano il posto ad altri ricordi. Volti di donne si sovrapponevano a sguardi distanti. Antonio aveva vissuto, spesso si era fatto strappare il cuore, in altri casi aveva lasciato ferite aperte al suo passaggio. Tra tutte le donne della sua vita restava Caterina come un ricordo evanescente, un flebile soffio di vento sulla sera, ragazza dalle spalle minute e portamento fiero, giovane amore perduto che aveva trovato il suo porto dove attraccare anche se lui non sapeva dove. Silvia era un altro fantasma avvolto dal fumo del mezzo toscano, portava con sé il sapore acre della terra d’Aspromonte, una voglia di vivere trasmessa da antenati abituati a scollinare montagne per condurre le bestie al pascolo, al riparo dalle intemperie. Tutte le altre donne erano scomparse, come dopo un temporale improvviso che si stempera nella notte, non restavano che poche frasi, raffiche di tramontana che di tanto in tanto trafiggevano il costato e si facevano rincorrere sotto la fioca luce d’un barlume di memoria. Il suo ricordo più intenso era quello d’una nave che alzava l’ancora e metteva in moto i motori, con lui passeggero di terza classe, compagno di topi e valigie ammucchiate in una stiva polverosa. Si partiva per fare fortuna, con tanta povera gente che nutriva sogni a stelle e strisce, vedeva una terra lontana come la soluzione ai problemi. Per quel piccolo mondo proletario l’America era una sfida da vincere. Ecco l’Atlantico, così diverso dal suo mar Tirreno, spettatore dei tramonti di Gaeta, visione oscura di un orizzonte da scoprire dopo la fuga dagli amori passati e da un lavoro come cameriere nel ristorante del porto. Una nuova terra spalancava braccia materne, insegnava una nuova lingua, un modo di comunicare con gesti e ampi sorrisi, un duro lavoro che non spaventava, come non aveva intimorito i suoi avi. Antonio ricordava la filanda e i turni massacranti al macchinario, le prime auto che rombavano sulle strade di New York, gli amori rubati nella notte, i ristoranti italiani dove lavava piatti e serviva ai tavoli dei ricchi, le mance elargite, le parole d’affetto e i connazionali che si riunivano per ricordare una terra lontana.  

Prima Guerra Mondiale

L’altoforno ruggiva e scompigliava ricordi, sparsi tra anfratti di memoria, mentre Antonio lasciava cadere dalle mani il disegno d’un angelo, dipinto con un carboncino nero sopra un pezzo di carta che serviva ad avvolgere la colazione. Aveva fatto anche quello in America, sulle pagine bianche schizzava tramonti di sogno e volti di donne lontane, angeli per cartoline d’auguri, cavalli con briglie sciolte che percorrevano impossibili praterie. Di tanto in tanto tornava quel vezzo antico, Antonio scriveva frasi in inglese, una lingua appresa dal popolo, sgrammaticata, zeppa di errori, come si esprimeva la povera gente approdata all’altro capo del mondo per fare fortuna. Foglietti di ricordi che teneva in una piccola agenda avvolta da un elastico, foglietti scritti e abbandonati sulle panchine d’un parco o nei luoghi di lavoro. Fare fortuna, pensava Antonio, mentre si chiedeva se ci fosse riuscito davvero e non sapeva rispondere, perché era stata comunque una fortuna viaggiare, conoscere mondi diversi, attraversare strade polverose e paesi di cui non rammentava i nomi, vedere volti di donne che adesso lasciavano in fondo al ricordo sorrisi misteriosi.

Altoforno nel 900

Antonio covava rimpianti nei momenti di nostalgia, tra tutti il ricordo più doloroso era il rombo dei cannoni, l’incubo ripetuto nelle ore notturne, l’odore della trincea e della polvere da sparo, la memoria d’una guerra che l’aveva fatto partire dalla sua America per andare a combattere. Un altro ricordo terribile era il campo di concentramento, le parole dure degli austriaci che l’avevano catturato in una notte di nebbia e di neve con le loro candide vesti, quando il nemico era entrato in trincea senza farsi vedere. La patria aveva richiamato Antonio, non per dargli un lavoro, quello se l’era andato a cercare di là dal mare, ma per fargli imbracciare un fucile, per dirgli che era suo dovere partire e difendere un tricolore. E lui che sino a quel giorno aveva solo parlato d’amore, cantato strofe per donne perdute, imbracciato un gesso o un pennello per dipingere angeli, avrebbe dovuto impugnare un fucile e sparare. Ricordava le lettere della madre dalle colline di Seggiano, lei scriveva che voleva rivederlo, stava in pena per il suo destino, mentre intorno rombava il cannone e fremeva la mitraglia. Una guerra fatta di piccoli passi e fossati da scavare, nascondigli, neve e melma, scarpe sfondate, la fame dei giorni passati a ricordare tramonti e un mare perduto. Infine la fuga  dal campo insieme a un amico, forse si chiamava Beppe, ma il ricordo è lontano non l’ha più visto quel compagno di fuga, infilarsi in un condotto fognario e andarsene via per i monti, fino a raggiungere le Alpi italiane e incontrare una contadina che serve polenta per bocche affamate. Il ritorno a Seggiano, dopo anni di cammino e sofferenza infinita, ma tutto ripaga la gioia d’un pianto improvviso, liberatorio. “Tonino! È tornato Tonino!”, gridavano in piazza. La guerra finita da tempo, i dispersi li davano tutti per morti, ed ecco il dolore dei genitori d’un tratto prender la forma d’una gioia assoluta.

Seggiano

L’altoforno sembrava osservare Antonio dall’alto di fumi imbiancati e colori di fiamme gettate nel vento, tra sbarre d’acciaio che cadevano al suolo pesanti in  violento frastuono. Adesso che l’America era un sogno perduto, un ricordo nel tempo che scorre, adesso che l’incubo bellico era svanito, il paese lontano era solo un pretesto per scrivere ancora una volta alla madre, per salutare il padre, i fratelli, l’intera famiglia. Il suo mondo adesso era cambiato per sempre, un promontorio sul mare, così diverso dai castagni amiatini, da uliveti e ciliegi in fiore nel mese di maggio. Alimentare una bocca di fuoco, ogni giorno, operai e carbone, per questo aveva lottato e rischiato la vita, per questo aveva fatto ritorno da una guerra infame. Non solo, aveva trovato l’amore, quello vero e definitivo, il porto sicuro dove fermare le vele e pensare al futuro. Non era più così giovane, aveva passato i quaranta, Adelina ne aveva molti di meno, era alta, capelli castani e occhi chiari, da far perder la testa per la sua bellezza. Antonio alzava gli occhi sul mostro e il pensiero correva alla figlia che tra non molto sarebbe andata in sposa a un ferroviere che aveva fatto il minatore all’Isola d’Elba, la casa dei suoi padri, persino il carabiniere a Roma, ma l’avevano cacciato perché comunista. L’acciaieria era la sua vita, ci aveva lavorato anche nei giorni bui del fascismo, quando le bombe cadevano dal cielo e Seggiano era stato un riparo per la figlia bambina, mentre in città i morti lasciavano il posto ad altri morti. Un’altra guerra mondiale, una follia ancora più assurda, i tedeschi prima alleati poi diventati nemici, gli americani e gli inglesi che bombardavano. Piombino liberata e lui, che sapeva l’inglese, in acciaieria a far da interprete, a parlare con soldati venuti da lontano, da un’America mai dimenticata, ragazzoni atletici e biondi che tutti chiamavano liberatori. Una casa proletaria accanto alla fabbrica, in quella via Gaeta che solo con il nome gli ricordava ogni giorno quel golfo dal quale era salpato per andare in America. In un posto di fumi e salsedine era cresciuta sua figlia, grazie a un’acciaieria che dispensava vita e dolore. Ed era proprio il sorriso della figlia a riassumere tutti i sorrisi delle donne che aveva conosciuto attraversando la vita come un volo di gabbiano. La sirena della fabbrica lanciava nel silenzio della sera il solito grido di dolore, chiamava a raccolta un popolo di operai che si radunava davanti a un altoforno, solenne preghiera di fronte a un altare pagano, luogo eletto per sacrificare un’esistenza. Antonio teneva con sé il cartoccio della cena preparata dalla moglie, la solita frittata con un po’ di pane, stava per cominciare un nuovo turno che l’avrebbe condotto nelle lunghe feritoie della notte ad attendere l’alba nel cielo. Varcava i cancelli d’una fabbrica antica che mai avrebbe pensato di conoscere ai tempi della giovinezza, quando tutto era avventura e sogno, in iziava una nuova giornata di sudore e lavoro. Tra non molto sua figlia avrebbe messo al mondo un bambino che avrebbe cominciato a chiamarlo nonno, sorridendo alle ruvide carezze delle sue mani da operaio.

Piombino

Notizia storica – Il racconto rielabora in forma romanzata la vita di mio nonno materno: Antonio Bindani, nato a Seggiano l’11 marzo 1888, morto a Piombino il 28 febbraio 1979, emigrante negli Stati Uniti (New York) dal 1910 al 1915 (approssimativamente). Partito da Terracina (porto di Napoli), rientrato in Italia per combattere in fanteria la Prima Guerra Mondiale; prigioniero in un campo di concentramento austriaco. Fa rientro a Seggiano due anni dopo la fine del conflitto, quando nessuno lo attendeva perché era stato dato per disperso. Nei primi anni Trenta scende dal Monte Amiata a Piombino per lavorare alle Acciaierie; si sposa nella cittadina maremmana con Adelina Andreuccetti (Campiglia Marittima, 14/11/1902 – Piombino, 26/02/1981), mette al mondo una figlia, Vanda Bindani, il 23 agosto 1936.

Il racconto, uscito in forma originale nel mio primo libro Lettere da Lontano (Tracce, 1998), viene ripubblicato ad aprile 2024, ampliato, riveduto e corretto.

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