Retrospettiva dell’Amaro Miele, Asta deserta, un rimestio di ricordi e sentimenti

Articolo di Filippo Scimé

Individuare l’avvio della letteratura poetica del Novecento è aspetto sociologico e fatto culturale da far tremar le vene e i polsi. Esso difatti è stato un motivo continuo di scontro critico e anche ideologico (e mai un confronto: non se ne capisce bene il motivo). Ricordava Claudia Crocco, nella sua opera giudiziosa La poesia italiana del novecento. Il canone e le interpretazioni,che, nella ricerca della gestazione del nuovo verso poetico, per Pasolini è stato decisivo Pascoli; per Sanguineti i veri cambiamenti passano attraverso Lucini e Gozzano; per Mengaldo bisogna partire da Govoni e da Palazzeschi. E sull’interpretazione che offriva Sanguineti, la studiosa chiarisce che la decisione del critico e poeta genovese di definire Lucini «primo poeta moderno» vuole dare rilievo a una tradizione che riconosce l’unicità della Neoavanguardia (Crocco, 2015).

Pertanto nel corso degli anni ogni critico letterario ha proseguito lungo il solco tracciato dai grandi e ha cercato di raccogliere un fascio consistente di prove per presentare l’ipotetico candidato che dà l’avvio a una fase della cultura italiana, libera ormai dalle pastoie ottocentesche libertarie, egalitarie e sentimentaliste, e altresì capace di influenzare il nostro pensiero sul mondo circostante: dovrebbe essere questo l’assunto sulla base della quale consideriamo l’importanza della poesia e non il carezzevole avvicendamento di autori desunti dal canone scolastico per celia, per noia, o per ricordo dolce o amarostico. Al netto delle classificazioni note e meno note, tutti sono concordi nel ritenere che l’essenza della poesia novecentesca è un linguaggio poetico polisemantico che non appiattisce l’uomo verso una semplice dimensione conoscitiva, ma amplia la sua visione delle cose e del mondo; la voce si abilita a raggiungere una polivalenza di linguaggi; essa diventa canto, suono, terrore e riscatto dell’uomo, non più succube di una claque o di una fetta di classe sociale, bensì capace di farsi autore della propria interiorità, della propria visione del mondo e offrirla in regalo.

Gesualdo Bufalino di poesia se ne è cibato continuamente, prima di tutto da giovane lettore, poi da sperimentatore, e poi da poeta. Da lettore, l’alfabetizzazione letteraria assume una precocità paurosa, tantoché non esisterà a definirsi divoratore di libri; la poesia letta è prevalentemente francese, simbolista e decadentista; in qualità di sperimentatore l’esperienza della retroversione di Baudelaire è significativa: Les Fleurs du Mal hanno influito tantissimo nella fissazione della cifra stilistica poetica, a metà tra il simbolismo e l’ermetismo quasimodeo, con un margine sapido di esistenzialismo montaliano, quantunque Bufalino non sia un poeta esistenzialista tout court, non sia poeta delle cose ma delle parole che ripercorrono un’iniziazione misterica in ognuno di noi e affondano nei ricordi che costituiscono un tenue quanto oscuro sommerso.

E in ultimo l’affabile veste del poeta ha fatto sempre parte della prosa di Bufalino, specie nella sua capacità di rievocare i ricordi attraverso l’oscuro misticismo della parola: parola affabulatrice, parola evocatrice, parola di rabbia e di miseria, parola sputo e tumulto, parola canzone, parola ricordo; una poesia dunque anticonvenzionale per una serie di ragioni a cominciare dalla decisione di presentarsi allo stesso pubblico che lo ammirava tardivamente come scrittore e adesso lo conosceva anche nelle vesti di poeta, quantunque un occhio accorto avrebbe potuto scorgere gli intermezzi poetici di alcune sue opere tra le quali, indubbiamente, sfavilla la prima: Diceria dell’untore. Si tratta di una scelta che l’autore siciliano persegue per ragioni di varia natura: per un verso la scelta di pubblicare liriche solletica la sua vanità di scrittore dalla fama consolidata e l’avventuroso rischio – del tutto calcolato – di sentirsi poeta tardivo, come del resto lo era stato anche da scrittore; per un altro, ritroviamo la volontà di non sottacere più a un impulso lirico della scrittura che instaurava un collegamento con il suo mondo antico, cioè quello di giovane titubante che si affacciava al mondo della pubblicazione elitaria, limitata, e ignota e lo respingeva, dedicandosi alla missione dell’insegnamento. Dopo un’improvvida, e quanto mai benedetta, avventura nel mondo del romanzo, adesso l’autore presagisce che per forze e capacità, può attingere alla vecchia miniera del suo io, nascosta tra quei sassi polverosi dei muriccioli che delimitano le strade ragusane; può attingerne senza più sentire il brivido del proibito, senza più sfuggirne, non fosse altro per sentire correre dentro il suo sangue il fluire del ricordo che attraversa il vecchio Ippari, fiume di ungarettiana memoria (Ippari vecchio, bianchissimo greto/ a te ho consegnato la mia infanzia,/ l’empia novella t’ho raccontato./ Come serpi nelle tue crepe

stanno tutti i miei giorni ad aspettarmi,/ sotterrata nell’acque tue /c’è la pietra del mio cuore.)Bufalino dunque recupera, tentando un innesto botanico-psicologico tra il fui e il sono, partendo dalla curiosa riesumazione di una serie di testi concepiti nell’immediato dopoguerra e fino a metà degli anni ’50.

Anche in virtù di questa piccola distinzione la poesia di Bufalino rimane ai margini di certe classificazioni poetiche non tanto per l’assenza della qualità del verso, quanto per una dinamica utopica nella definizione e nella pubblicazione del prodotto poetico. Si pensi che l’autore ha fatto in tempo a revisionare la terza edizione dell’Amaro miele nel 1996, poco prima di morire, nella quale ha aggiunto, a memoria postuma, tutti i versi degli ultimi anni in combinazione con tutti quelli fino ad allora realizzati, creando una silloge-testamento per il quale, ironia della sorte, proprio la poesia, il germoglio dal quale è stato soffiato quel piccolo cumulo di terra, è stato l’ultima grande prova.

Asta deserta succede a Gli annali del malanno (se ne rimanda l’analisi d’esordio: https://www.ilsaltodellaquaglia.com/2022/07/06/retrospettiva-dellamaro-miele-gli-annali-del-malanno-esegesi-fisiologica-della-malattia/) e si tratta di una macro sezione che raccoglie ventotto componimenti che presentano metricamente il verso libero e alcune interessanti sperimentazioni con la presenza di poesie che faranno parte della ‘forma’-prosimetro (Di Silvestro, 2020) che sarebbero Sinopia della morte, La sosta e A Sesta Ronzon ovunque si trovi. Una preziosissima recensione è offerta dallo stesso Bufalino che, in una plaquette, afferma che il tema predominante espresso dalla personale riflessione poetica è la Sicilia come patrimonio di memorie, mnemoteca e insieme materno ombelico con l’esistenza. Un rapporto difficile: di rigetto, innanzi tutto, per il grumo levantino e facinoroso, per l’intreccio di frode e forza e sole sleale che si suol chiamare mafia, e che mi sforzo ogni momento di censurare e di espellere del mio pantheon di sillabe e sentimenti; è un errore ignorare il “dettaglio geografico” della produzione bufaliniana, esso è un itinerario del tutto intimo di definire lo spazio che è rimasto ferino, brutale, polveroso, come nelle fiabe antiche, e concepirlo nella sua totale separazione dal tempo che è irrimediabilmente diverso rispetto al passato, ne diventa una sacca, un pollone che raggruma ricordi. Altre volte invece è incarnazione del paradosso esistenziale che riguarda l’autore, perché identifica una sovrapposizione di maschere (che riguarda peculiarmente buona parte di quella Sicilia che è capace di percepire questa dualità), una prima di sentirsi per cultura e lingua mentale totus europeus; una seconda, aggiunge Bufalino, è quella di non potersi o volersi scrollare di dosso la pelle Sicilia.

In questo sub hasta vendere il poeta banditore mette all’asta i suoi ricordi e si abbarbica al suono della sillabe per rievocare quei sordi canti di cicale, quei greti sassosi, quella strada di casa che era la fine, ma anche l’inizio di una nuova vita.

Il rimestio dei ricordi conosce differenti sentieri si affollano pochi volti, e l’io s’affanna a ripescar quel passato che ha segnato la coscienza di uomo, folle relitto del poeta; ancora s’ode l’eco del lamento della guerra e della sua esperienza feroce vissuta a metà tra l’azione di impronta ungarettiana (Fu questa, or è gran tempo, la mia vita:/un sasso sotto la nuca, e chiuso nel duro tabarro fumavo come un uomo./ Portatemi dunque sulla collina, ho tante storie da raccontare/, e la malinconica luna/piace ancora ai miei occhi cervieri in Ritorno sulla collina) e il rifugio, la partenza, il rimpianto per essere stato lontano dalla mischia e il lento distacco da quel sangue, quell’orrore, quel mistero sempre velato, sempre taciuto (O dormiglioni compagni,/ fossi rimasto al vostro fianco ancora/ con una foglia di gelso sugli occhi./ O compagni traditi/ a piedi nudi venitemi dietro,/ lapidatemi da lontano./ in Lamento del viaggiatore).

Mi piace concludere con una delle poesie che evoca un fascino misterioso quasi da giardino edenico e che riassume con interezza il pensiero e la poetica di Bufalino; mi son sempre baloccato a immaginare cosa sia questo peccato: la poesia, un libro, un piacere morso e poi disatteso, una colpa, un amore? E quelle parentesi da tabù, non significa forse ricordare il ricordo senza sconto alcuno? Pur nelle infime falde del piacere doloroso? Ma poi preferisco rimanere nel dubbio e addurre il pretesto più fascinoso…..

Nascita del peccato

Fu nel fumo, nel rossore d’un orto,
e i cotogni odoravano tutt’intorno
così forte (non bisogna ricordarsene).

In tanti, ognuno sdraiato e smorto,
un’aspide prava, un’aspide storta
ci morsicò l’occipite,
le mani adulte e furenti.

Poi ne parlammo sotto voce a due a due,
tutto quel giorno e l’altro.

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