Era lui, tornato da chissà dove. Un ricordo di Piero Chiara a centodieci anni dalla nascita

Articolo di Filippo Scimé

Nell’approssimarsi al nuovo anno, il 2023, in queste ultime faville del maglio, regala qualche scoria residua di attimi, momenti, ricorrenze numerose e dunque perdute, evitate, ignorate, come il ciclo della vita che salva per lo più l’inutile che sommerge l’utile, in ogni campo e vieppiù nella letteratura. Potrebbe certo sembrare un discorso di parte (e forse lo è), suonare una campana per l’ammiratore che riconosce quel suono e vuole perdersi in esso. E in fondo non è un discorso scontato, tutti codesti autori masticati e amati (o odiati), della letteratura italiana novecentesca ormai sono bronzo fuso di campane e melodie morte, sperdute, rievocate da antichi compianti e, dopo questi ultimi, il nulla polveroso, sgretolato dal setaccio del tempo o dal frenetico conteggio delle ore, dei minuti passati, perduti, quindi forse mai esistiti, se questa bianca lavagna cibernetica dovesse di colpo sparire. Forse solo in tal modo la critica letteraria tornerebbe a essere letta. 

E Piero Chiara? A qualsiasi lettore va ascritto il compito di “proteggere” il suo autore, non tanto per tesserne vanamente gli elogi ma per capire il meccanismo della vita, spiarne il pensiero, intuire se quanto ha scoperto, e riversato su fiumi di carta, venga percepito dalla propria esperienza o ripercorso, come se, di quel fiume, un sol rivolo bagnasse i nostri piedi e valesse la pena di risalire alla foce perciò di vivere la vita nelle sue asperità, nelle dolci tentazioni, cercando con ostinazione il profumo seducente di una meta dorata. 

    A centodieci anni dalla nascita voglio soffermarmi su un breve racconto, indubbiamente cifra costante, sublime, dell’arte di Chiara, unico autore della letteratura italiana a fare dell’oralità una stenografia accurata dello scritto, con quella sintesi che non lascia barbagli di immaginazione. Si tratta di: “Era lui tornato da chissà dove” presente in “Di casa in casa, la vita” edito da Mondadori nel 1988, uscito dunque postumo e giunto dieci anni fa all’ottava ristampa.

    Il racconto, uno tra i più belli, prende avvio della fantomatica immedesimazione dell’autore in un padre che smarrisce un figlio, o meglio, per citare il testo, “il suo unico figlio bambino, colpito da qualche morbo”, similitudine usata per disegnare i tratti di una coscienza adulta triste e frastornata, che vittima di una dolce pazzia, impaurita da quello smarrimento, vuole ritrovare quella coscienza ingenua di infante, smossa dalla voracità della vita e di fatto perduta. Uno dei temi della narrativa chiariana è la perdita o la frantumazione dell’io; questa icastica quanto breve rappresentazione si appiglia a quel viaggio interiore compiuto nella ricerca dell’io bambino, di quella fonte primigenia di felicità, brutale e langobardesca oserei dire, soffermandomi sul vissuto di Chiara, un attardato Giannino Stoppani. 

Questo continuo ritorno nel luogo di nascita, descritto con una docile delicatezza poetica, è alimentato da un’ostinata ricerca di sensazioni visive nel cercare di ricordare anche i posti seppelliti dalla memoria: “Un giorno mi parve di vederlo sul balcone del sarto Primi. Sedeva sul piano di granito e teneva le gambette nude penzoloni, infilate tra le volute di ferro. Salii subito nei locali del sarto, ma la porta era chiusa. Mi ricordai allora che il Primi era morto da almeno trent’anni e che il suo laboratorio, dove andavo a veder lavorare le cucitrici e a farmi regalare i rocchetti vuoti del filo forte, era chiuso e abbandonato”. In questi luoghi ormai mutati dalla decidua sovrapposizione di immagini è prefigurata la continua ricerca di un bambino, il bambino che fu e che non potrà mai essere perché sfugge, è inafferrabile come il delirio dell’anno che va, come ciò che non possiamo carpire più perché non esiste e rimane proiezione della memoria. 

Proprio quando tutto sembra ormai concluso e avviarsi in un finale triste, un lampo pascoliano soggiunge, e ciò che era perduto riaffiora; è carpito un bimbo tra le mani dell’autore, non è fugace sembianza, anzi al contrario forma e sostanza iridescente, un miracolo tanto atteso, nella riproposizione perfetta di ciò che era e adesso è. Irrompe, però, una voce: una madre richiama il bambino e nel traumatico distacco si compie il delirio del ricordo, e tutto si scioglie, la sabbia della clessidra del tempo erompe: “Chiusi gli occhi. Quando li riaprii vidi, sopra di me, il bianco salone vetrato di un grande battello che attraccava in silenzio. Guardai verso la piazza: era vuota e deserta, forse per lasciare uno spazio tra la scomparsa della donna e del bambino e l’arrivo di chi andava a imbarcarsi o di chi sarebbe sbarcato. D’improvviso mi ricordai del nome col quale la donna aveva richiamato il bambino: un nome gentile, con la penultima sillaba ripetuta lungamente come in una eco lontana”. Re-cordor, appunto, cioè richiamare al cuore il compiersi di qualcosa che non è più qui o non è più adesso: lo sono le innumerevoli pieghe della gioventù, e gli autori che con mano ferma e ingenuo incanto le hanno percorse.

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