Mi chiamavano Giggirriva

Articolo di Gordiano Lupi

Mi chiamo Luigi ma nessuno così mi ha mai chiamato, per tutti son Gigi e quando comincio a tirar bordate di mancino son Giggirriva, tutt’attaccato, ché in Sardegna  parlano così, raddoppiano le consonanti. Nasco a Leggiuno, davanti al Lago Maggiore, da una famiglia proletaria, perdo mio padre che ho solo nove anni, morto sul posto di lavoro, mamma è in filanda, muore di cancro qualche anno dopo; studio dai preti, vado da mia sorella, infine lavoro agli ascensori, ma gioco a calcio, dove e come posso. Son così bravo sui prati di Leggiuno che un giorno mi vedono calciare di mancino e mi fanno firmare un contratto col Legnano, in serie C, dove mi soprannominano Ul furzelina (Il forchetta) perché segno tante reti ad avversari che si chiamano Ivrea, Sanremo, Fanfulla e Pordenone. Trentasette milioni spende il Cagliari di Silvestri per avermi in formazione, io contraccambio e lo porto in serie A con le mie reti; primi anni Sessanta, gioco all’Amsicora con loro, pian piano divento un cannoniere. La Nazionale è un sogno per me che son cagliaritano a vita, è qui che vinco lo scudetto con una squadra davvero micidiale, nel 1970, Sergio Gori a far da centravanti, Domenghini ala destra, io sinistra; quattordici anni a Cagliari, 208 reti quasi tutte di mancino. Rombo di Tuono mi chiama Gianni Brera, e io che le reti fo tremare con bordate davvero impressionanti, lo faccio mio quel soprannome, me lo porto appresso dove vado, persino in Messico dove perdo la finale della Rimet contro Pelé e quel mitico Brasile. In Nazionale mi ci porta Fabbri che mi fa entrare al posto di Pascutti, ma l’allenatore mio del cuore resta Scopigno al Cagliari – un filosofo che fuma sigarette e ragiona tra nuvole di fumo – senza dimenticare Valcareggi, trainer della Nazionale. Pallone d’oro, campione d’Europa, campione del mondo no, quello mi manca, scudetti (uno solo vinto col mio Cagliari, unico nella storia), infortuni, strappi muscolari, caviglie infrante, perone distrutto, intorno tante reti da segnare, l’ultima contro il Como, quando mi fermo a 32 anni e tanto ancora avrei da fare. Il calcio mi ha dato molto, è stato la mia vita, prima in campo poi da dirigente, allenatore ombra del mio Cagliari, persino Presidente, accompagnatore della Nazionale, soprattutto mi ha dato l’amore della gente, d’una Sardegna di cui mi sento figlio, dove non son nato ma qui voglio morire. Tutti mi amano ché mi son fatto amare, forse non gli arbitri con cui spesso litigavo, neppure gli juventini (ma che fare?) perché da qui non sono voluto mai partire e alla Juventus – tenetevi il miliardo! – non ci son voluto andare.  E adesso che il mio cuore s’è fermato sento le note d’una canzone sarda intonare Quando Gigi Riva tornerà, e da lontano, tra immagini sfocate, un popolo in maglia rossoblu rispondere che Nel nostro cielo un rombo di tuono sentiremo. È stato bello, dai, ci siamo amati. E le mie reti non le dimenticherete.

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