Nel racconto di Adele Perna risuonano, inevitabilmente, i temi del body shaming, del cyberbullismo e delle devianze digitali. Sui social, infatti, il corpo femminile è spesso oggetto di derisione, di giudizio o di mercificazione; il dolore viene spettacolarizzato, la fragilità esibita e poi condannata. Questa dinamica produce nuove forme di violenza: la paura di non piacere, la necessità di mostrarsi perfetti, la dipendenza dal consenso. È la vittoria dell’“io performativo” che vive solo attraverso lo sguardo altrui
Alcuni libri non si limitano a raccontare una storia, ma ci accompagnano in un viaggio dentro l’animo umano, dove la vulnerabilità si intreccia con la speranza. L’ago della bilancia di Adele Perna, edito da Kimerik, appartiene a questa rara categoria: romanzi che lasciano un segno perché parlano di vita, di sofferenza e di rinascita.
Flora entra nella vita del lettore in punta di piedi, ma resta a lungo nel cuore. È una figura autentica, luminosa, complessa. Un’adolescente come tante, forte e ironica, che sogna l’amore assoluto, quello che travolge e sconvolge. L’incontro con Marcello, giovane inizialmente burbero ma capace di accendere in lei un’estate di emozioni, sembra realizzare quel sogno. Ma quando l’affetto si spezza all’improvviso, il dolore diventa abisso.
Quello che colpisce maggiormente è la delicatezza con cui Adele Perna tratteggia la fragilità di Flora, rendendola sempre tangibile. Ogni emozione, ogni pensiero, ogni esitazione della protagonista è restituito con una precisione che fa sentire il lettore partecipe della sua esistenza, come se camminasse al suo fianco nei giorni più sereni e in quelli più tormentati. La scrittura, delicata e intensa, alterna momenti di lirismo a sequenze di realismo quotidiano, trasmettendo l’idea che la sofferenza non è mai astratta, ma incisa nei dettagli di gesti, parole e silenzi. L’autrice, con grande sensibilità, mostra come il dolore non sia mai univoco: è fatto di assenze, di rimpianti, di rabbia, ma anche di piccole conquiste quotidiane che, accumulate, diventano segnali di resilienza.
Il rapporto con Marcello è emblematico: non è solo la storia di un amore adolescenziale, ma un vero specchio delle aspirazioni e delle illusioni di una giovane donna che cerca di definire la propria identità. Il legame tra i due non si limita alla passione e alla tenerezza, ma esplora anche il conflitto tra desiderio e delusione, tra attaccamento e necessità di libertà. Quando l’affetto si interrompe, non è soltanto un cuore infranto: è la rottura di una bussola interiore che costringe Flora a confrontarsi con sé stessa in maniera più intima e struggente. La perdita diventa allora occasione di introspezione, di messa a fuoco dei propri bisogni e di ricerca di equilibrio.
L’esperienza dei disturbi alimentari, raccontata senza filtri, diventa un potente simbolo della tensione tra corpo e identità, tra controllo e abbandono. Flora non lotta solo contro il cibo: combatte contro una realtà che misura l’importanza delle persone in base all’apparenza, contro la pressione di conformarsi a standard imposti da una società ossessionata dall’immagine. La sua battaglia personale, fatta di paura, vergogna e autocritica, si trasforma progressivamente in una conquista di consapevolezza: accettare il proprio corpo, con le sue imperfezioni, significa ritrovare un senso di autonomia e dignità.
Questo percorso di riappropriazione di sé, lento e faticoso, rende il romanzo straordinariamente vicino a chi legge, perché tocca un tema universale: la difficoltà di amarsi in un contesto che sembra invitare a disprezzarsi.
Inoltre, Adele Perna esplora con lucidità la solitudine e il lutto. La perdita dei genitori non è soltanto un evento tragico, ma un catalizzatore che spinge Flora a ridefinire i legami con il mondo esterno e con la propria interiorità. La capacità di trasformazione rende Flora una figura radiosa: nonostante tutto ciò che le accade, non rinuncia a cercare la felicità, a immaginare un futuro in cui sia possibile amare e essere amate.
Adele Perna riesce a raccontare questa parabola di sofferenza e riscatto con parole chiare e coinvolgenti. È evidente che l’autrice non osserva l’angoscia da lontano, ma la attraversa insieme alla sua protagonista, restituendo al lettore un’esperienza di profonda umanità.

Come scrive nella prefazione Stefano Callipo, “il bisogno di sentirsi amati è uno dei bisogni fondamentali” e “l’amore può costituire una vera e propria profilassi emotiva”. È proprio l’affetto — nella sua presenza e nella sua assenza — a guidare ogni pagina del romanzo, come bussola e come cura.
Da sociologo dei processi culturali e comunicativi, non posso non confrontare la storia di Flora con quanto accade nel nostro tempo, segnato da un culto dell’immagine e dell’apparenza. Viviamo, come scrive Zygmunt Bauman, in una modernità liquida, dove tutto scorre e si consuma rapidamente: sentimenti e relazioni. In questa società, anche il corpo diventa superficie di consenso e strumento di visibilità, esposto al giudizio costante degli altri.
Flora rappresenta l’antitesi di questo paradigma. È una giovane donna che, pur ferita, sceglie di riappropriarsi del proprio corpo e della propria identità. La sua lotta contro il disturbo alimentare diventa una lotta simbolica contro il sistema di apparenze che ci schiaccia, contro quella continua esposizione digitale che trasforma le nostre vite in vetrine da cui non si può più fuggire.
In un periodo storico in cui la misura del valore è affidata ai “like” e agli algoritmi, la sua rinascita diventa un atto di ribellione silenziosa ma determinante.
Nel racconto di Adele Perna risuonano, inevitabilmente, i temi del body shaming, del cyberbullismo e delle devianze digitali. Sui social, infatti, il corpo femminile è spesso oggetto di derisione, di giudizio o di mercificazione; il dolore viene spettacolarizzato, la fragilità esibita e poi condannata. Questa dinamica produce nuove forme di violenza: la paura di non piacere, la necessità di mostrarsi perfetti, la dipendenza dal consenso. È la vittoria dell’“io performativo” che vive solo attraverso lo sguardo altrui.
La protagonista di Adele Perna ci insegna e ci ricorda che l’affetto — per gli altri e per sé stessi — resta la più alta forma di resistenza.
Flora incarna un’umanità ferita ma capace di rinascere: quella di una generazione che troppo spesso confonde la visibilità con l’amore e la perfezione con la felicità.
Il romanzo sottolinea l’importanza della tenacia, la capacità di navigare le tempeste senza perdere la propria essenza.
Kavafis, nella sua poesia Itaca citata nella prefazione, afferma: “Quando ti metterai in viaggio per Itaca, devi augurarti che la strada sia lunga, fertile in avventure e in esperienze”. Il viaggio di Flora è proprio questo: un cammino verso la gioia e verso nuovi traguardi da raggiungere.

In un’epoca che vive di schermi, filtri e apparenze, L’ago della bilancia di Adele Perna è un romanzo prezioso e significativo. Una narrazione che invita a guardare oltre la superficie, a riscoprire l’essere e a rimettere al centro il valore della vita.
È un libro che tocca e commuove, che ci ricorda che la soddisfazione non si misura in numeri o consensi, ma nella capacità di cadere e rialzarsi, come fa Flora, cento volte, ogni volta più viva.
L’AUTRICE
Adele Perna nasce ad Enna il 25 maggio del 1978, frequenta studi classici e durante la maturità scopre la sua forte passione per il teatro. Nel 2001 inizia a frequentare con successo l’accademia “tuttinscena” diretta da Pino e Claudio Insegno dove nel 2004 si diploma con successo. In quegli anni collabora come attrice e aiuto regista in diverse produzioni teatrali dirette da Lando Buzzanca, Stefano Sandri, Walter Manfré, Enzo Garinei con cui debutta come protagonista in uno spettacolo drammatico dal titolo Passato di pomodoro. Dal 2004 al 2007 lavora come attrice e cantante per la compagnia di operette del soprano rodigino Josiana Pizzardo, esperienza che la formerà anche come cantante. In quegli stessi anni lavora in tv in trasmissioni come Scherzi a parte, Piloti, Non facciamoci prendere dal panico, insieme ad artisti del calibro di Antonella Clerici, Maria Amelia Monti, Max Tortora, Gianni Morandi, solo per citarne alcuni. Nel 2010 si appassiona al cinema, prima tralasciato, iniziando a lavorare in alcuni progetti indipendenti sia in qualità di attrice che di sceneggiatrice. Nell’ultimo anno il film Oh mio Dio!, scritto e diretto dal regista Giorgio Amato, le ha dato molta visibilità. Fra i suoi progetti prossimi venturi un corto da lei stessa scritto e interpretato sull’importante tema dell’eutanasia.
