Della morale manzoniana o del riflesso moralistico di donna Prassede

Articolo di Filippo Scimé

Di certo quel sottile senso moralistico, per nulla fastidioso, di cui sono pervasi i Promessi Sposi (merita un discorso a parte infatti la Storia della Colonna Infame) traspare anche quando la penna del Manzoni, sulla quale aleggia il manto salvifico della Provvidenza, si incaglia in una delle cateratte del lungo corso del romanzo, rappresentate nei moventi e nell’agire da uno dei cosiddetti “personaggi minori” dello scrittore milanese; stiamo parlando di una signora che i famosi venticinque lettori del novero manzoniano ricorderanno come: donna Prassede.

L’avvento di questa donna sulle pagine del romanzo ricompone nella nostra mente la simpatica immagine di qualche nostra vecchia zia, un po’ bigotta, magari nubile, così attenta a serrare la morsa degli indumenti all’altezza del collo; in presenza della quale, per la sua temibile compagnia, desistiamo dal proferire parole, anche se in fondo in fondo, le vogliamo bene per via di un sentimento atavico che, se a tratti è sopito, dall’altro è risvegliato dal ribollire del sangue. La costruzione del suo personaggio è il risultato di un interessante esperimento manzoniano che traduce una delle piccole sfaccettature della prassi moralistica adoprata; alludo all’orma del piè mortale tra i vivi, cioè, meno poeticamente alla voglia dello scrittore di esperire con la sua penna un lato ombroso, che deve mostrarsi nella sua fragile umanità, sopravvivere alla penombra dell’oblio, esempio tangibile all’occhio del lettore.

Donna Prassede ha un compito specifico nella storia: perseguitare la povera Lucia. Se l’avvio cela il dato sensibile delle apparenze “Era donna Prassede una vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene”, più avanti il Manzoni tocca un nervo scoperto dell’operare umano: “mestiere certamente il più degno che l’uomo possa esercitare; ma che purtroppo può guastare, come tutti gli altri”. Cambiano i tempi, ma non i modi: l’essere umano è irrimediabilmente simile a sé stesso. Poi lo scrittore lombardo continua in punta di fioretto, elargendo un apoftegma, come suo solito, prolisso: “Per fare il bene, bisogna conoscerlo; e, al pari d’ogni altra cosa, non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre passioni, per mezzo de’ nostri giudizi, con le nostre idee; le quali bene spesso vanno come possono”. Probabilmente una massima che dovremmo portare sempre con noi nel corso del viaggio terreno.

Pertanto donna Prassede, avendo cognizione di un numero irrilevante di queste idee ed essendo poco avvezza a regolarsi con la lingua, dava fiato a quelle deliziosamente storte; per tal motivo, quantunque “molto inclinata a far del bene”, e pienamente padrona degli eventi del suo picciol tempo, appena conosce la storia di Lucia e della sua prodigiosa liberazione, decide di avere anche lei il suo umile ruolo nella sequela dei fatti che il Manzoni ha narrato.

Soffermandoci sul nobile precetto catoniano del rem tene, verba sequentur, Donna Prassede si presenta padrona di un qualunquismo tristemente noto (rem l’argomento appunto), il quale non ci appare frutto di quell’umana comprensione, del saldo ottenuto dai bonus e dai malus vissuti. Ella discosta con l’indice raggrinzito il velo della storia e ne entra a far parte, muovendosi adagio sull’assito della narrazione, nella continua presunzione di offrire il migliore rimedio, come se serbasse in seno uno scopo personale espresso dalle parole (verba) prima che si scotti la lingua, anche se in assoluta buona fede, tant’è che l’autore onnisciente precisa: “e se ne proponeva un altro, forse più considerabile, secondo lei; di raddrizzare un cervello, di metter sulla buona strada chi n’aveva bisogno.”

Ed ecco la nobile missione di ogni buon cristiano, superbamente irradiato dal fulgore della giustizia e della carità: raddrizzare il cervello e mettere sulla buona strada la gente, nella fattispecie la nostra taciturna Lucia. Donna Prassede pensa che i palpiti di Lucia siano causati da un poco di buono, che sotto sotto aveva compiuto qualche castroneria e in conformità all’antico adagio: “Dimmi chi pratichi e ti dirò chi sei” percepisce un senso di smarrimento nel quale possa inserire la sua saggezza pretestuosa e futile. L’utilizzo massiccio dei proverbi, espressione del volgo popolare (non lombardo, a mio avviso, quantunque la risciacquatura ripulisca queste scorie, la voce del popolo non si può connotare geograficamente) e che ritroveremo altrove (si pensi a Verga), rivendica la paternità del “sentito dire”, che nonostante sia generico, inghiotte voracemente particolari di assoluta fantasia.

Non si dimentichi, infine, lo sguardo che donna Prassede ha nei confronti di Lucia, così condizionato da quelle sensazioni, da quei silenzi loquaci, che ormai facevano parte della sua immagine: “non che in fondo non le paresse una buona giovine; ma c’era molto da ridire. Quella testina bassa, col mento inchiodato sulla fontanella della gola, quel non rispondere, o rispondere secco secco, come per forza, potevano indicar verecondia; ma denotavano sicuramente caparbietà: non ci voleva molto a indovinare che quella testina aveva le sue idee”.

C’è un impercettibile pulviscolo che sfugge alla coltre del tempo che tenta di imbalsamare la tabacchiera di don Lisander, e penso che probabilmente sia il lato profondamente umano di chi si sente dalla parte dei giusti, di chi non è profondamente calato dentro le cose, e assume un atteggiamento ben lontano dalla fraterna carezza del cuore, dal sostegno emotivo. L’errore umano di donna Prassede evidenzia un pregiudizio negativo nell’analisi dei fatti; è l’errore compiuto dal giusto, portavoce erroneo della carità cristiana; e significa al tempo stesso escludere l’intelligenza davanti alla purezza di un cuore sofferente, di estrometterla dalla comprensione della realtà, che, per quanto amara, è limitata e limitante. Allora l’attualità del Manzoni, non tanto scrittore quanto profumatamente uomo, si riflette nel delineare un personaggio che compie, nonostante l’età avanzata, un errore di valutazione umana, e ci insegna, all’interno di un romanzo che conferma la grandezza della Morale, che il sugo dei pregiudizi, se pur gustoso, non porta frutto.

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