Le poesie calcistiche di Umberto Saba

Articolo di Gordiano Lupi

Gli intellettuali snobbano il calcio, soprattutto quello popolare, lo sport legato alla propria terra, che riporta ai tempi dell’oratorio e delle domeniche vissute all’ombra del campanile. Pare quasi un mantra radical-chic, una sorta di appendice al film di Salce, interpretato da Paolo Villaggio nei panni del ragionier Fantozzi, della serie La corazzata Potëmkin è cultura, un bell’incontro di calcio tra Padova e Vicenza no, solo sport, una cosa di poco conto. Luciano Bianciardi non la pensava così, lui era un intellettuale alternativo, scriveva per Playboy e il Guerin Sportivo, alla fine un editore ancor più alternativo ha raccolto molti suoi interventi calcistici in un libro a tema (Il fuorigioco mi sta antipatico) e tanti sono ancora dispersi su riviste d’epoca. Umberto Saba, invece, sembra un letterato fuor di sospetto, scevro da tentazioni popolari, fa parte di quei poeti laureati – alcuni lo definiscono ermetico ma non è vero, forse crepuscolare, pascoliano, di fatto un genio non classificabile – che non ce li vedresti a fare il tifo in gradinata, magari rischiando il freddo d’una giornata di vento. E invece Saba, il padre della bambina con la palla in mano che insegue cose leggere e vaganti, ci lascia cinque delle poesie più belle sul gioco del calcio, edite nella raccolta Parole (1933 – 34), mettendo in campo tutto l’amore per la squadra della sua città, pari all’affetto che prova per le strade di Trieste, per il suo freddo mare, per la grazia scontrosa e per i vicoli cittadini. Tutto nasce, pare, da un biglietto donato da un amico che non può recarsi a vedere un Triestina – Ambrosiana (il nome che portava a quel tempo l’Internazionale di Milano), incontro terminato zero a zero, ma che piace così tanto al poeta, da convincerlo a tornare allo stadio per incitare i suoi beniamini. I rosso alabardati della Triestina negli anni Trenta vincono fior di campionati, sono una squadra di vaglia della massima serie nazionale, il poeta è tra i molti spettatori che la domenica vanno a salutare quei calciatori sputati dalla terra natia, da tutto un popolo amati. Saba segue il gioco dei suoi beniamini, trepida per loro, li vede calcare il verde tappeto sotto il chiaro sole d’inverno, consapevole che certi gesti atletici esprimono cose meravigliose, antiche, persino ataviche, sono capaci di allontanare angosce e tormenti, che si perdono tra abbracci, esultanza, gesti giulivi di giovani rampolli d’una terra amata. Il poeta si perde nella commozione domenicale, riflette tutto il suo amore per una rete segnata, per un’azione importante, per una parata decisiva; descrive le partite come un regista neorealista, sembra di vedere i calciatori salutare il pubblico in mezzo al campo, quindi cominciare la lotta, con un portiere che fa da sentinella ai pali, fiuta il pericolo, quando sente avvicinarsi l’avversario si accovaccia come una fiera pronta a saltare e tenta di ghermire il pallone scagliato verso la rete. La partita della Triestina è un momento di festa, che dura poco, appena novanta minuti, ma per quel poco reca gloria a tutta la città, porta soddisfazione intrepida, un fiume d’amore, un sogno da trascorrere uniti sulle antiche tribune di marmo. Pure nei giorni di bora, quando il freddo glaciale spegne il sole, schiarendo il presentimento della notte, e gli spettatori si stringono tra loro, intirizziti, uniti, come ultimi uomini su un monte, che guardano di là l’ultima gara. Spettatori che restano sui gradini dello stadio come una manipolo sparuto a riscaldare loro stessi, mentre le maglie bianche e rosse corrono a perdifiato in una luce fatta d’una strana iridata trasparenza. Un vento maligno che falsa la traiettoria del pallone, fa sì che la sorte d’un tiro venga decisa dalla dea bendata. E quando sventola la bandiera rosso alabardata, solitaria, su un muretto, puoi vedere anche molti fanciulli tifare nello stadio, per ricordare il passato, quando il poeta era un ragazzino e andava a veder giocare la squadra cittadina, proprio come fa adesso che è invecchiato. La festa del calcio, di una giornata allo stadio si chiude con un goal, meglio se segnato dalla squadra del poeta, un tiro che fa gonfiare la rete, mentre Saba descrive eventi ed emozioni come un regista con la macchina da presa, usando armi liriche e parole antiche. In quel momento vedi un portiere caduto celare la faccia contro la terra per non farsi sfiorare da un’amara luce, un compagno rincuorarlo in ginocchio, che l’induce ad alzarsi mentre scopre pieni di lacrime i suoi occhi. Vedi la folla, unita nell’ebbrezza, traboccare in campo, il vincitore osannato dai compagni, in un momento bello, d’amore e  commozione, uno dei più lirici istanti al mondo. E l’ultimo sguardo vola verso l’altro portiere, quello con la rete inviolata, solo e distante, ma con il cuore in festa, con l’anima che chiede di partecipare alla gioia, perché ne fa parte, mentre immagina di fare una capriola, poi manda baci da lontano, sognando la vittoria. Immagini sognate dal poeta durante una partita infrasettimanale giocata dalla sua squadra, una vittoria a sorpresa nonostante gli sfavori del pronostico, una gioia incontenibile vissuta in pochi su gradoni tormentati dal freddo gelido della bora. Cinque liriche di Umberto Saba che sono un inno al gioco del calcio, un canto suadente e insolito rivolto allo sport più bello del mondo, che diventa ancora più dolce quando a scendere in campo sono calciatori che indossano le maglie con i colori della tua città. Trieste come il mondo. Il calcio come rappresentazione della vita. Amore, gioia, dolore, commozione, tristezza, passione. Pochi versi struggenti racchiudono il senso di un’intera esistenza.

Cinque poesie sul gioco del calcio

I – Squadra paesana

Anch’io tra i molti vi saluto, rosso
alabardati,


sputati
dalla terra natia, da tutto un popolo
amati.


Trepido seguo il vostro gioco.
                                                Ignari
esprimete con quello antiche cose
meravigliose
sopra il verde tappeto, all’aria, ai chiari
soli d’inverno.

Le angosce
che imbiancano i capelli all’improvviso,
sono da voi sì lontane! La gloria
vi dà un sorriso
fugace: il meglio onde disponga. Abbracci
corrono tra di voi, gesti giulivi.

Giovani siete, per la madre vivi;
vi porta il vento a sua difesa. V’ama
anche per questo il poeta, dagli altri
diversamente – ugualmente commosso.

II – Tre momenti

Di corsa usciti a mezzo il campo, date
prima il saluto alle tribune. Poi,
quello che nasce poi,
che all’altra parte vi volgete, a quella
che più nera si accalca, non è cosa
da dirsi, non è cosa ch’abbia un nome.

Il portiere su e giù cammina come
sentinella. Il pericolo
lontano è ancora.
Ma se in un nembo s’avvicina, oh allora
una giovane fiera si accovaccia
e all’erta spia.

Festa è nell’aria, festa in ogni via.
Se per poco, che importa?
Nessuna offesa varcava la porta,
s’incrociavano grida ch’eran razzi.
La vostra gloria, undici ragazzi,
come un fiume d’amore orna Trieste.

III – Tredicesima partita

Sui gradini un manipolo sparuto
si riscaldava di se stesso.
                                       E quando
– smisurata raggiera – il sole spense
dietro una casa il suo barbaglio, il campo
schiarì il presentimento della notte.
Correvano sue e giù le maglie rosse,
le maglie bianche, in una luce d’una
strana iridata trasparenza. Il vento
deviava il pallone, la Fortuna
si rimetteva agli occhi la benda.


Piaceva
essere così pochi intirizziti
uniti,
come ultimi uomini su un monte,
a guardare di là l’ultima gara.

IV – Fanciulli allo stadio

Galletto
è alla voce il fanciullo; estrosi amori
con quella, e crucci, acutamente incide.

Ai confini del campo una bandiera
sventola solitaria su un muretto.
Su quello alzati, nei riposi, a gara
cari nomi lanciavano i fanciulli,
ad uno ad uno, come frecce. Vive
in me l’immagine lieta; a un ricordo
si sposa – a sera – dei miei giorni imberbi.

Odiosi di tanto eran superbi
passavano là sotto i calciatori.
Tutto vedevano, e non quegli acerbi.

V – Goal

Il portiere caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non vedere l’amara luce.
Il compagno in ginocchio che l’induce,
con parole e con la mano, a rilevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.

La folla – unita ebbrezza- par trabocchi
nel campo. Intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questo belli,
a quanti l’odio consuma e l’amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere.

Presso la rete inviolata il portiere
– l’altro- è rimasto. Ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasto sola.
La sua gioia si fa una capriola,
si fa baci che manda di lontano.
Della festa – egli dice – anch’io son parte.

Related Articles