La luce morale nella vocazione dell’evangelista Matteo Levi che gli cambia la vita

Articolo di Pietro Salvatore Reina

Il 21 settembre, il Martirologio Romano, un libro liturgico che costituisce la base dei calendari liturgici la cui prima edizione ufficiale fu approvata da papa Gregorio XIII nel 1584, stabilisce l’odierna festa liturgica dell’apostolo e evangelista Matteo.

Matteo Levi viveva a Cafarnao e sembra che si possa ipotizzare che portasse due nomi: Matteo, in aramaico, significa «dono del Signore» e Levi come l’omonima tribù sacerdotale ebraica (cfr. Il libro dei Numeri 3). L’evangelista Marco nel suo racconto evangelico aggiunge il patronimico «figlio di Alfeo» (Vangelo secondo Marco 2, 14). Un caso analogo con doppio nome, nel Nuovo Testamento, è quello di Giuseppe Barnaba, un «levita originario di Cipro», una figura di uomo generoso assai rilevante negli Atti degli Apostoli (4, 36-37). Anche lo storico giudeo con cittadinanza romana Giuseppe Flavio (ca 37-100 d. C.) ci riferisce che il sommo sacerdote, a capo del processo del Sinedrio a Gesù, si chiamava Giuseppe Caifa.

Matteo Levi era un «pubblicano», un telónes, in greco, (da telós, «tassa»), un esattore del denaro «pubblico» ovvero delle tasse destinate all’Impero romano e per tale motivo detestato dagli Ebrei come «collaborazionista». La funzione di esattore supponeva un grado di cultura qualificato e quindi potremmo, un po’ liberamente affermare, che Matteo Levi possedesse una sorte una sorta di «licenza da scriba».

Fin dal II secolo il Vangelo secondo Matteo, scritto in greco, forse ad Antiochia di Siria, intorno agli anni 80 fu il più usato dei Vangeli sinottici. Un’opera che dipende letterariamente da varie fonti, soprattutto da Marco e da una seconda fonte comune agli evangelisti Matteo e Luca chiamata dagli studiosi fonte «Q» (dal tedesco Quelle= fonte).

Tra i tanti artisti che hanno «figurato» e «riscritto» i Vangeli e in particolare la vita e la storia dell’evangelista Matteo non si può non ricordare il maggiore pittore italiano del Seicento e uno dei massimi di tutti i tempi: Michelangelo Merisi (1571 o 1573-1610), detto, dal presunto luogo di nascita, il Caravaggio.

Sullo scorcio del Cinquecento, Caravaggio ottenne l’incarico di dipingere le storie di san Matteo per probabile intercessione del suo protettore, il potente cardinale Francesco Maria Dal Monte. Una prima tela, San Matteo e l’angelo, è rifiutata dai preti di San Luigi, perché come testimonia lo storico dell’arte Giovan Pietro Bellori (1613-1696) quella figura «non haveva decoro, ne aspetto di santo, stando a sedere con le gambe incavalcate e co’ piedi rozzamente esposti al popolo». Una tela che, in seguito, fu comperata dal Museo Federico di Berlino e che purtroppo andò irrimediabilmente perduta nel 1945 durante i giorni della battaglia per la conquista della capitale tedesca. Una seconda redazione della tela, più classicamente composta, è ancora oggi esposta nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma. Nella cappella Contarelli di questa importantissima chiesa romana si trova il famosissimo dipinto, a olio su tela, La vocazione di san Matteo (1598-1601), un’opera che fa parte del ciclo pittorico dedicato alla vita di san Matteo. Il dipinto di Caravaggio ha qualcosa di «rivoluzionario». Il significato della chiamata/vocazione di Matteo Levi (la grazia che discende nel buio) è rappresentato e «costruito» dalla «luce». Una fonte di luce di cui non conosciamo l’origine «fisica». Una luce che non proviene dalla finestra chiusa, chiaramente visibile a chi guarda l’opera. Una luce che proviene da destra, come se la porta, dalla quale è entrato il Cristo, posta a un livello più alto della stanza, fosse rimasta aperta, spalancata, socchiusa. Ma proprio perché – osservano gli storici d’arte Piero Adorno, Rodolfo Papa et alii – non possiamo renderci conto con certezza della sua provenienza essa perde il suo significato razionale, concreto di luce reale. Non è più il «lume universale» del Rinascimento ma è una luce «morale», una luce che taglia la semioscurità della stanza e le vite che su di essa sono dipinte, incastonate. È un fascio di luce che non proviene dalla finestra chiusa ma da una sorgente indefinita. Nella Storia dell’Arte non c’è luce più «famosa». Una luce che penetra nella stanza, che squarcia il buio, l’oscurità. Una luce che taglia la tela in modo direzionale da destra a sinistra. Un raggio di luce che tocca tutti. Una luce che santifica ed elegge lo stupito pubblicano Matteo Levi seduto al banco della dogana di Cafarnao. In quest’opera c’è, meravigliosamente, la novità e l’importanza della «lezione» di Caravaggio che rifiuta la tradizionale identificazione di bello con buono, di brutto con cattivo. La grazia di Dio tocca chiunque. Squarcia il buio, tocca chiunque.

Caravaggio «svela» la luce della grazia divina. Una luce morale che scende sfiorando la testa di Gesù esaltandone e individuandone la bella mano, suscitatrice di vita, come quella dell’Altissimo, nella Creazione di Adamo nella volta della Sistina. Una luce che si sofferma sugli astanti, che li blocca nell’atto che stanno compiendo mentre, energicamente, fissa l’istante vocazionale di Matteo Levi. Un istante che muta, e per sempre, la sua vita.

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