Obbligo 2% alla Nato

Articolo di C. Alessandro Mauceri

“La maggior parte dei membri della Nato raggiungerà l’obiettivo di spesa del 2% del Prodotto Interno Lordo nella Difesa entro il 2024, ma abbiamo ancora molta strada da fare” furono le parole del Segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, a poche ore dalla conferenza dei ministri della Difesa dell’Alleanza che si tenne a Bruxelles nel 2018. “Le cifre indicano che 15 dei 29 membri della Nato raggiungeranno l’obiettivo tra sei anni, ma tutti i Paesi dell’Alleanza hanno aumentato la spesa per la Difesa in risposta alle sfide in Europa e altrove”, aggiunse. Anche l’ex presidente USA Donald Trump aveva esortato i Paesi del patto atlantico a stanziare il 2% del proprio PIL per la Nato. “Il contribuente americano non può più sobbarcarsi una sproporzionata quota a difesa dei valori occidentali e della Nato. Gli americani non possono e non vogliono più preoccuparsi del futuro dei vostri figli” disse il Segretario alla Difesa Jim Mattis. “La scarsa prontezza militare dimostra una mancanza di rispetto per noi stessi, per l’Alleanza e per le libertà che avete ereditato, ora chiaramente in pericolo. Gli Stati Uniti rispetteranno gli obblighi in seno alla Nato, ma potrebbero ridimensionare il loro impegno nei confronti di quei membri europei che entro l’anno non avranno messo in atto un piano per raggiungere la soglia del 2% per la spesa militare”. Donald Trump definì la soglia del 2% come minimo indispensabile da raggiungere e non più come un traguardo per ogni Paese della Nato.

Gli ultimi due governi italiani (Draghi e Meloni) non hanno avuto niente da ridire. Eppure, già nel 2019, ovvero prima del 2022 anno dello scoppio della guerra in Ucraina, l’Italia versava destinava all’Alleanza atlantica una somma considerevole: l’1,15% del PIL. Una percentuale inferiore alla media dei Paesi europei del Patto Atlantico (1,48%). E meno della somma concordata e ribadita nel 2014 in occasione del vertice Nato nel Galles e due anni dopo nel corso degli incontri a Varsavia.

Su tutti i media non si fa che ripetere sempre la stessa percentuale: 2%. Pochi sanno che questa percentuale ha avuto grandi variazioni nel corso degli anni. Alla fine degli anni Ottanta, ad esempio, i membri europei dell’Alleanza destinavano alla Difesa una media del 3,3% del PIL. Poi, dal 1990 al 1994, questa percentuale scese al 2,7%. Alla fine degli anni Novanta si aggirava intorno al 2,2%. Il calo più netto si verificò nel 2009 quando (anche a seguito della crisi economica galoppante) la media scese all’1,7% per poi continuare a scendere.

In tutto questo nessuno si è mai preso la briga di vedere a quanto ammonta questa “percentuale”. Per capirlo si dovrebbe conoscere il PIL dei vari Paesi. A cominciare da quello dell’Italia. Ebbene secondo i dati del sito Italiaindati che si basa sui numeri del l’OCPI (Osservatorio Conti Pubblici Italiani) il PIL nominale italiano ammonterebbe a 1.781 miliardi di euro. Dati, questi, confermati dal Ministero dell’Economia e Finanze che prevede per il 2023 un PIL nominale poco sotto i duemila miliardi di euro (1979,2)  https://www.mef.gov.it/inevidenza/Approvata-la-NADEF-2022-lo-scenario-tendenziale-delleconomia-italiana/

Tradotto in numeri, questo significa che l’Italia, solo l’Italia, dovrebbe destinare alla Nato la somma spaventosa di 39,58 miliardi di euro. In pratica più della finanziaria. Una somma spaventosa (e forse per questo nessuno ne riporta il valore assoluto). Ma non tutti in modo diretto. I fondi della Nato, infatti, sono divisi in contributi diretti e indiretti. I primi servono a finanziare le operazioni comuni (sistemi di difesa aerea o di comando e controllo). I secondi, invece, quelli indiretti, deriverebbero dal poter disporre di truppe o attrezzature messi a disposizione dai singoli Paesi per le operazioni militare. Gli Stati possono decidere di partecipare a questa seconda voce di spesa secondo le proprie possibilità, fornendo soldati o mezzi per operazioni via terra, navali o aeree, ma anche supporto medico o umanitario. Inutile dire che in questo caso, le spese per queste operazioni “volontarie” sono totalmente a carico dei singoli Paesi che le intraprendono.

Questo spiegherebbe come mai, a fronte di somme così elevate, il bilancio della Nato ammonta a solo 2,5 miliardi di euro, dei quali per poco più della metà destinati ad operazioni militari, circa un decimo a “operazioni civili” e 790 milioni a programmi di investimento (?).

La decisione di obbligare gli Stati membri a destinare alla difesa nazionale e, quindi, alla Nato una cifra pari almeno al 2% del proprio PIL deriverebbe proprio da questo: assicurarsi che, in caso di necessità, tutti i Paesi Nato possano contribuire in modo “volontario” ma significativo agli sforzi dell’Alleanza con i propri mezzi. Basti pensare che nemmeno le Nazioni Unite impongono ai Paesi membri di mettere a disposizione una somma fissa calcolata sul PIL.

La decisione di “invitare” i Paesi membri a destinare una percentuale del proprio PIL a questa voce di spesa risalirebbe alla riunione svoltasi nel 2006 al margine del vertice Nato di Riga, in Lettonia. Ma in quell’occasione nessuno parlò di obbligo. Anzi il portavoce dell’Alleanza sottolineò che non si trattava di un “impegno formale” ma della “decisione di lavorare a questo obiettivo”.

“Io mi sono vergognato quando ho letto che un gruppo di Stati si sono compromessi a spendere il 2 per cento del PIL per l’acquisto di armi come risposta a quello che sta accadendo, pazzi!” ha detto Papa Francesco durante un’udienza al Centro Femminile Italiano. “La vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo, non facendo vedere i denti, un modo ormai globalizzato, e di impostare le relazioni internazionali”.

L’aspetto più interessante, come fece notare Jan Techau direttore di Carnegie Europe nel 2015, è che questa percentuale, il 2%, non ha alcun fondamento scientifico o tecnico: venne deciso in maniera arbitraria (esattamente come il famoso rapporto deficit/PIL 3%). Tra l’altro sempre secondo Techau, questa percentuale permetterebbe di valutare le risorse impegnate nelle varie missioni ma non di valutare le conseguenze di queste azioni, né in termini di reali capacità di un Paese a contribuire alle missioni Nato né gli effetti di queste missioni.

Da allora, i governi che si sono succeduti sembrano aver dimenticato tutto questo. La “disponibilità”, il contributo “volontario” viene presentato ai cittadini come un obbligo. Un impegno formale degli Stati a spendere sempre di più (il PIL cresce) in armi e armamenti. E in guerre. Conflitti armati che durano decenni e che non hanno né vincitori né vinti. Ma che servono a foraggiare decine di multinazionali produttrici di armi con montagne di soldi che, se usati in modo corretto, potrebbero servire a risolvere molti dei problemi del pianeta.

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