Lettere a Theo, il libro di Vincent Van Gogh

Articolo di Frank Iodice

Perché Van Gogh firmava le sue tele soltanto col nome? Perché rifiutò di integrarsi in una società che, così come lo distrusse, avrebbe potuto dargli la gloria artistica che meritava? E perché, dopo aver venduto un solo quadro nell’arco della sua carriera, quest’artista non ottenne niente di meglio che un anonimo e solitario suicidio? Oltre a essersi rivelato il padre del moderno espressionismo, ad aver rivoluzionato l’uso emozionale dei colori e ad aver dato un esempio di abnegazione per la propria arte, Vincent Van Gogh ci ha lasciato un numero considerevole di lettere che ogni giorno scriveva e che dopo la sua morte sono state raccolte dalla moglie di suo fratello, Theo, e pubblicate per la prima volta nel 1913 in tre volumi. Era proprio a quest’ultimo che la maggior parte delle lettere erano indirizzate. Ciò dimostrava il legame indistruttibile che caratterizzò la vita dei due fratelli.

Perché dare tanta importanza alle lettere che scriveva un pittore, il quale in fin dei conti parlava dei suoi lavori? Nelle descrizioni delle proprie tele e dei propri disegni Vincent esprimeva i suoi stati d’animo, le sue angosce, le sue gioie, talvolta la sua follia, una follia artistica, spesso confusa con la più banale pazzia. Che cos’era la follia di Van Gogh? Era una perdita di un legame con la realtà, con l’ambiente circostante e le sue regole? Può darsi, ma era per prima cosa una manifestazione di un male di vivere, di una passione talmente struggente per le proprie opere da anteporle alle necessità primarie come mangiare e dormire.

Vincent era un personaggio oscuro, la sua voglia di amare e di comunicare con un mondo esterno sempre più scomodo era talmente forte da rasentare un’ossessione comunicativa, un’esagerata generosità. Durante il periodo nel quale visse tra i minatori del Borinage dormì nelle più modeste capanne, con quattro cenci addosso e un po’ di pane nello stomaco, e usò tutti i suoi guadagni per aiutare la povera gente. Perché un artista diventò un predicatore? Il predicatore dà amore, un vero artista dovrebbe fare lo stesso, lo fa con le sue opere, ma prima di sapere di esserne capace lo fa con qualunque altro mezzo gli si presenti.

Questa panoramica sulle vicende biografiche di Vincent è ampiamente ricostruibile attraverso le sue lettere. Fu la moglie di suo fratello, morto sei mesi dopo il suicidio di Vincent, a riordinarle e farle pubblicare. Sono state pubblicate diverse versioni del carteggio, di recente una bellissima da Guanda, per citarne una, tutte alla ricerca dell’ordine perfetto, la migliore ricostruzione della sua vita attraverso le sue lettere. Tutti conoscono le vicende che hanno reso così famosa la vita di Vincent Van Gogh. L’incontro con gli impressionisti a Parigi, il lavoro con i minatori di carbone, le delusioni amorose e professionali, la fame, il viaggio ad Arles, l’associazione di artisti indipendenti del sud, un progetto dettato dal suo bisogno di essere giudicato per migliorarsi e di mostrare i suoi dipinti agli altri artisti… Un progetto mai realizzato. L’unico pittore che accettò l’invito di Vincent ad andare al sud e vivere di sola arte fu Paul Gauguin, tutt’altro tipo di uomo, un navigante, un opportunista, il quale dopo un periodo trascorso nella casa gialla, ripartì alla volta della Polinesia, lasciando il suo amico annegare per sempre negli abissi delle sue follie.

Le sue lettere. Nel periodo più proficuo della sua produzione artistica − vale a dire gli ultimi dieci anni della sua vita − Vincent Van Gogh scrisse centinaia di lettere, più di una al giorno. Le lettere di Van Gogh rivelano tutte le verità, le verità sulla sua arte, sulla sua vita, sulla sua follia e sulla sua morte. Attraverso l’analisi delle lettere, gli studiosi hanno ricostruito la vicenda del taglio dell’orecchio e dell’internamento nel manicomio di Saint-Rémy. Dal punto di vista letterario, Vincent Van Gogh non aveva nulla da invidiare agli scrittori del suo tempo.

L’Ottocento è stato il secolo di Baudelaire e dei poeti maledetti, il secolo del romanticismo, del romanzo storico. Si potrebbe definire il secolo più importante nella storia della letteratura europea. In questa marea instabile di poesie, romanzi epistolari, e novelle gotiche, questo pittore tra un dipinto e l’altro, senza neanche saperlo, produsse struggenti opere letterarie, pregnanti di forte eccitazione lirica e immensa umanità.

Perché individuiamo nelle sue lettere doti di grande scrittore, è presto detto. Una delle tecniche che hanno caratterizzato il romanzo moderno è quella del “non detto”. Vale a dire, riuscire a esprimere i propri sentimenti senza usare alcuna parola che li descriva direttamente, riuscire a giocare col significato connotativo e denotativo delle parole, omettere la parte più importante e lasciarla immaginare al lettore. Mentre descriveva i suoi lavori, le sue parole assumevano diversi significati nell’intero ambiente narrativo. Le lettere di Vincent erano scritte in maniera semplice, anche perché per la maggior parte erano in francese, che non era la sua lingua madre. Vincent non aveva grossi studi letterari alle spalle, solo diversi fallimenti, come quello all’istituto teologico di Amsterdam. Eppure, c’è una certa forma di attenzione nella composizione di quelle lettere, come se, ogni volta che non aveva i soldi per comprare i colori, sfogasse il suo bisogno di creare arte scrivendo. Qualcosa condizionò la scelta di determinate parole. Le due espressioni, sia quella pittorica sia quella narrativa, servirono all’artista a esprimere quell’amore che è la più immortale forma d’arte.

Prima di scrivere una parola anziché un’altra bisogna chiedersi quale significato potrà assumere nel contesto del proprio lavoro. Vincent ci ha trasmesso l’importanza della semplicità, dell’armonia, come se le parole si dovessero dipingere e non scriverle. Descrivere vuol dire dipingere con le parole, dare al lettore un quadro della scena, pieno di colori e di odori, con semplicità e completezza. Nel descrivere i suoi quadri, creava figure retoriche degne del più abile poeta romantico, come “i miei quadri in zoccoli” per indicare i lavori che raffiguravano i contadini e la povera gente da lui amata e dipinta fino allo stremo delle forze. Vincent diceva che il suo scopo era descrivere le terribili passioni umane. E usava il verbo “descrivere”.

Quasi tutte le lettere erano indirizzate a suo fratello. Theo era impiegato in una famosa galleria parigina, all’interno della quale assunse presto un ruolo di responsabile. Nella sua posizione, avrebbe potuto far esporre i quadri di suo fratello, ma non lo fece mai. Appese i quadri, che Vincent con tanta foga dipingeva in Provenza, alle pareti di casa. Theo non volle separarsi da quegli oggetti, aveva paura che i critici disprezzassero l’arte di suo fratello e lui ne soffrisse, subisse il rifiuto pregiudicando le sue future creazioni. Un gesto che salvò la carriera del pittore o che segnò l’inizio della sua rovina personale, lo sfacelo mentale e, infine, la sua morte? La risposta a queste domande fu data sicuramente durante il loro ultimo incontro, al letto di morte di Vincent, che dopo essersi sparato un colpo di rivoltella nel petto, puntando al cuore, restò due giorni nel suo letto fumando serenamente la pipa, parlando con Theo e aspettando la morte come l’unica soluzione per la sofferenza. Durante quel lungo dialogo, quella confessione della quale non ci è rimasto molto, se non la sua ultima lettera, che non aveva fatto in tempo a spedire*, Vincent disse: “Non sono stato nemmeno bravo ad uccidermi…”

*Lettera che Vincent aveva in tasca il 29 luglio 1890, il giorno in cui morì

Mio caro fratello,

grazie della buona lettera e dei 50 franchi. La cosa più importante è che tutto vada bene; perché allora insistere sui dettagli di minore importanza?; del resto, c’è tempo prima che ci si presenti la possibilità di parlare d’affari a mente calma.

Gli altri pittori, di qualsiasi opinione siano, si tengono istintivamente lontani dalle discussioni sul commercio attuale. E infatti non possiamo far parlare che i nostri quadri. Pure, caro fratello, c’è qualcosa che ti ho sempre detto e ti ripeto ancora una volta con tutta la gravità che possono dare gli sforzi di una preoccupazione constante a fare più bene possibile ti ripeto ancora: io ti considero ben altra cosa da un semplice venditore di Corot; per conto mio, tu hai la tua parte nella stessa produzione di certe tele, che anche nello sfacelo conservano la loro calma.

Siamo infatti a questo punto ed è la cosa migliore che posso dirti in un momento di relativa crisi. In un momento in cui i rapporti tra negozianti di quadri di artisti morti e di artisti viventi, sono molto tesi. Ebbene: per il mio lavoro rischio ogni giorno la vita, e vi ho perduto metà della mia ragione – va bene – ma tu non sei tra i mercanti d’uomini per quanto sappia io, e puoi assumere una tua posizione, agendo realmente con umanità. Ma che cosa vuoi tu infine?

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