Luciano Salce: la commedia sexy ironica e surreale

Articolo di Gordiano Lupi

Luciano Salce (Roma, 1922 – 1989) è un factotum del cinema italiano, attivo sia come regista che come attore e sceneggiatore. Ricordiamo le sue frequenti apparizioni televisive in trasmissioni popolari come Stasera… Rita! (1965), Studio Uno (1966), Sabato sera (1972), Buonasera con… Luciano Salce (1979), Ieri e oggi (1979) e Due di tutto (1982). È un vero intrattenitore televisivo, un David Lettermann italiano, inventore del talk – show intelligente e ironico. Si ricordano alcuni duetti con Mina, uno scambio di battute sulla bruttezza con Alberto Sordi (“Non ride Salce, ammazza quanto sei brutto!”), i commenti giornalistici con Luttazzi e tante affermazioni sopra le righe (“Non mi prendono sul serio e io mi faccio crescere la barba!”).

   Non ha una giovinezza facile perché lo chiamano a combattere nella Seconda Guerra Mondiale e viene preso prigioniero dai tedeschi. Nel primo dopoguerra interpreta un piccolo ruolo ne Un americano a Roma (1946) di Luigi Zampa, si diploma all’Accademia d’arte drammatica, lavora nel cabaret parigino dei Tre Gobbi (1949), insieme a Caprioli e Bonucci, quindi si specializza come attore e regista nel teatro leggero. Salce emigra in Brasile per lavorare, dirige un teatro italiano e nel 1953 realizza i suoi primi lavori cinematografici: Una pulga na balança (Una pulce nella bilancia) e Floradas na Serra (Floradas nella Sierra). Sono due pellicole che nessuno ha visto e non sarebbe una cattiva idea recuperarle, per storicizzare un ottimo autore. Salce torna in Italia e riprende a fare l’attore in Totò nella luna (1958) di Steno, ottima spalla comica nei panni di uno scienziato tedesco, forse il ricordo degli ufficiali durante la prigionia è utile per conferire veridicità al personaggio.

   Il debutto italiano come regista arriva con Le pillole d’Ercole (1960), una commedia interpretata da Nino Manfredi e Sylva Koscina, vero e proprio adattamento per il grande schermo di una pochade teatrale di Maurice Hennequin e Paul Bilhaud, la più classica commedia degli equivoci ambientata in uno stabilimento termale. Il malinteso di fondo è nel ruolo di moglie, perché Manfredi non vuole concedere la vera consorte a un ricco americano che deve vendicarsi per le corna subite. La comicità delle situazioni scaturisce da un equivoco, il regista è bravo a rendere la storia con grande cura formale, gli sceneggiatori (Maccari, Scola, Vighi e Baratti) fanno il loro dovere e gli attori sono eccellenti. Vittorio De Sica, Oreste Lionello, ma anche la giovane Jeanne Valérie non sono da meno dei protagonisti principali. Si intuisce la classe del regista che vuole le battute pronunciate sempre in movimento, mai da fermi. Il cinema ha le sue regole. Non è il teatro.

   Luciano Salce lancia nel cinema serio Ugo Tognazzi, in una commedia satirica sul ventennio come Il federale (1961), una feroce critica al fascismo che tira fuori molti scheletri dagli armadi dei vecchi gerarchi. Il suo ruolo di fustigatore dei costumi e di autore incline alla satira viene ribadito ne La voglia matta (1962) e Le ore dell’amore (1963), pellicole che ridicolizzano vizi e difetti dell’Italia del boom. Nel cinema di Salce non mancano i riferimenti erotici e le note ironiche sui vizi degli italiani, mentre spesso vengono fuori tematiche come la caccia alle straniere, la voglia del quarantenne di concupire una sedicenne, la crisi della coppia e i rapporti coniugali che si sfasciano. Ugo Tognazzi diventa un suo attore simbolo, la giovanissima Catherine Spaak è una perfetta lolita, ma anche la sensuale Barbara Steel fa la sua parte come inglesina tutto pepe.

   La cuccagna (1962) è un’altra commedia che ironizza sull’Italia del benessere, ben girata tra spiagge, interni di famiglia con protagonista il televisore, canzoni languide di Luigi Tenco e figli democristiani in odore di omosessualità.

   Luciano Salce si ritaglia spesso una parte nei propri film, a volte sono piccoli cammei, ma molto più spesso ruoli importanti, così come non smette di fare l’attore per interpretare film diretti da altri. Non dimentichiamo che la sua vera vocazione e il mestiere per cui studia è proprio quello di attore, soprattutto di teatro. Come regista ha il difetto di non prendersi troppo sul serio, di giocare con il bozzettismo, la macchietta, la battuta facile, da avanspettacolo, ma è dotato di una tecnica notevole, è un ottimo direttore di attori e sa realizzare opere dotate di grande rigore formale. Enrico Menczer è il direttore della fotografia che preferisce, girano quattordici film insieme, una coppia indissolubile, perché esiste grande stima tra i due professionisti. 

   Nella carriera del regista romano ci sono anche battute d’arresto come il mediocre Le monachine (1963), interpretato da Catherine Spaak, Didi Perego e Sylva Koscina, che in un primo tempo doveva essere una farsa per far esordire alla regia Castellano e Pipolo. Alta infedeltà (1964) è un film a episodi firmato da Franco Rosi, Elio Petri, Mario Monicelli e Luciano Salce, che dirige La sospirosa e segna il debutto comico di Monica Vitti in una farsa sul tema della gelosia. Oggi, domani, dopodomani (1965) è un altro film a episodi firmato da Marco Ferreri, Eduardo De Filippo e Luciano Salce, che dirige La moglie bionda, con Pamela Tiffin, Marcello Mastroianni e Lelio Luttazzi, ma fa anche l’attore ne L’ora di punta di Eduardo De Filippo. Non è un lavoro memorabile, ma solo un’operazione commerciale di Carlo Ponti che distrugge un film di Ferreri, lo rimonta, lo modifica e lo mette in circolazione come parte di un trittico. Le bambole (1965) è un altro film a episodi e Salce scrive – insieme a Steno – Il trattato di eugenetica, diretto da Comencini. Slalom (1965) è intrattenimento fine a se stesso, una parodia dei film di spionaggio scritta da Castellano e Pipolo, un film di consumo interpretato da Vittorio Gassman, Beba Loncar, Adolfo Celi e Isabella Biagini. Servono pure questi e Salce non ha mai rinnegato i lavori più commerciali che presentano una marcia in più rispetto a prodotti simili girati da altri registi. Come imparai ad amare le donne (1966) non merita grande attenzione, perché è una commedia datata sul tema italico donne e motori, che si ricorda soltanto per la presenza di un’acerba Romina Power e di una deliziosa Orchidea De Santis. El Greco (1966) è un film storico che vede in campo l’icona sexy Rosanna Schiaffino accanto a Mel Ferrer. Salce non è esperto di film in costume, racconta l’Inquisizione, ci mette una bella storia d’amore, confeziona un prodotto tecnicamente perfetto e cita pure Goya. Nonostante tutto non è il Salce che preferiamo. Le fate (1966) è ancora un film a episodi a tematica erotica, firmato da Salce, Monicelli, Bolognini e Pietrangeli, ma il regista romano gira solo Fata Sabina con Monica Vitti ed Enrico Maria Salerno. Ti ho sposato per allegria (1967) è un adattamento cinematografico di un lavoro teatrale di Natalia Ginzburg, ben interpretato da Monica Vitti (in gran forma), Giorgio Albertazzi e l’icona sexy Maria Grazia Buccella. La pecora nera (1968) è un’occasione mancata per fare buona satira politica, ma si ricorda per l’ottima interpretazione di Vittorio Gassman (in un doppio ruolo) come onorevole irreprensibile e fratello gemello maneggione.

   Colpo di Stato è un film importante, da riscoprire e rivalutare, un apologo fantapolitico, una pellicola molto quotata all’estero ma poco considerata in Italia. Luciano Salce interpreta un modesto ruolo da attore nella parte introduttiva per mettere in rilievo la tematica portante delle fantomatiche elezioni del 1972 vinte dalle opposizioni, alle quali poteva far seguito un colpo di Stato restauratore. Soggetto e sceneggiatura sono di Luciano Salce ed Ennio De Concini, che firmano un film difficile, debitore della cultura di sinistra post sessantotto, scomodo al punto che viene messo in circolazione soltanto nel 1979, dopo aver avuto problemi con la censura. Colpo di Stato se la prende un po’ con tutti: democristiani servili con gli Stati Uniti, comunisti legati a doppio filo con Mosca, gerarchie ecclesiastiche che fanno politica dalla parte dei padroni, fotografi di moda che immortalano il niente. Ne escono bene soltanto gli idealisti, i comunisti veri che rifiutano logiche accomodanti ma vorrebbero rifondare la società dalle fondamenta. Inevitabile che una pellicola simile avesse problemi con la censura in un periodo storico oscuro come i primi anni Settanta. Orchidea De Santis conferisce un tocco di malizia erotica in alcune sequenze che la vedono amoreggiare con il fidanzato e mostrare le sue grazie giovanili. La bella attrice romana è presente in diverse commedie di Salce e qui non è utilizzata al meglio delle sue potenzialità, anche se possiede grande presenza scenica e la sua femminile sensualità contribuisce a irritare i censori. È davvero bella in minigonna alla moda e occhiali da studentessa. Il film contiene brani musicali di Claudio Villa (Granada), molte canzoni rivoluzionarie e della resistenza interpretate da Anna Casalino. Originale la funzione del coro sullo stile della tragedia greca che introduce le sequenze successive e sintetizza gli accadimenti con brani tipo Mancan solo poche ore/la parola all’elettore!. Sono molte le parti volutamente polemiche: come le suore che portano i morti al seggio, pur di farli votare, Stati Uniti e Russia che parteggiano per i politici di riferimento, mentre la Cina si disinteressa. Quando arriva l’improbabile vittoria elettorale della sinistra i comunisti non se la sentono di governare e restano all’opposizione. Stati Uniti e Unione Sovietica concordano che è meglio così, per non far crollare fragili equilibri e per evitare un bagno di sangue. Colpo di Stato è un film strano, incompreso, atipico per il regista, anche se carico di intelligente ironia, ironico, caustico, sarcastico. L’ipotesi della pellicola è fantapolitica, ma sostenuta da un’analisi politica reale, perché racconta ciò che sarebbe potuto accadere. I democristiani meditano un colpo di Stato, i generali pensano di intervenire, altri dicono che sarebbe meglio scappare. Il sogno comunista resta nelle parole e nei pensieri irrealizzabili di un compagno.

   Il prof. Dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue (1969) è un fiacco sequel de Il medico della mutua di Luigi Zampa, si basa sulla bravura di Alberto Sordi e amplia vecchi discorsi già letti nel romanzo di Giuseppe D’Agata. Basta guardarla (1970) è un gran bel film che racconta la nostalgia per il teatro di rivista, riporta sul grande schermo molti numeri e situazioni tipiche di quel genere di spettacolo. Salce aveva avuto una compagnia teatrale con Franca Valeri e Vittorio Caprioli, con loro aveva lavorato in televisione, si scrivevano i testi e gettavano uno sguardo sulla realtà. In questo film ci sono tutti i ricordi del bel tempo andato, c’è la nostalgia per un teatro che non ritorna, ci sono interpreti ottimi e lo stesso Salce ricopre un ruolo importante che avrebbe dovuto essere di Tognazzi. Si tratta del primo film di Mariangela Melato, ma c’è anche una bellissima Maria Grazia Buccella, contadinella che diventa ballerina, innamorata di un improbabile cantante come Carlo Giuffrè. Il provinciale (1971) è soltanto un inno alle bellezze della Buccella, nei panni di una prostituta che fa innamorare Gianni Morandi. Il sindacalista (1972) è un ottimo film con protagonista Lando Buzzanca, sindacalista d’assalto che rivendica i diritti degli operai contro un padrone burbero come Renzo Montagnani. Salce usa la commedia all’italiana per tentare di fare un discorso sociale e in parte ci riesce, ma spesso il film cade nella farsa fine a se stessa. Io e lui (1973) è tratto dall’omonimo romanzo di Moravia e vede ancora all’opera Lando Buzzanca intento a dialogare con il suo membro virile. Salce realizza un film che non piace a nessuno, ma inventa virtuosismi tecnici impensabili per la parte recitata dal pene e si prodiga nella esilarante descrizione di un ambiente cinematografico che pensa solo al sesso.

   Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno (1974)  segna l’incontro tra Luciano Salce e Paolo Villaggio, ma ci sono anche Eleonora Giorgi e Orchidea De Santis per una satira grottesca del mammismo e degli ambienti nobiliari. Il sodalizio Salce – Villaggio produce alcuni personaggi storici del comico genovese che passano dalla televisione al cinema e restano nell’immaginario collettivo. Ricordiamo il Professor Kranz tedesco di Germania (prima in tv e poi al cinema, nel 1978), ma soprattutto Fantozzi (1975), l’impiegato frustrato, icona di tutti noi, simbolo della società contemporanea che riduce l’uomo a una stupida macchina da lavoro. Vengono fuori i film più belli della serie: Fantozzi (1975) e Il secondo tragico Fantozzi (1976), lavori tratti dall’opera letteraria di Paolo Villaggio, che collabora alla sceneggiatura e in questo caso è molto di più che l’attore principale, quasi un collaboratore alla regia.

   L’anatra all’arancia (1975) è una graffiante commedia all’italiana che spesso deborda in commedia sexy, interpretata da Ugo Tognazzi, John Richardson, Monica Vitti e Barbara Bouchet. Il film è molto teatrale e mostra tutti i limiti di un’opera tratta da una commedia, ma la visione di un’icona sexy come Barbara Bouchet salva tutto.

   La presidentessa (1977) mette in scena un grande cast composto da Johnny Dorelli, Mariangela Melato, Gianrico Tedeschi, Laura Trotter, Vittorio Caprioli e lo stesso regista in un ruolo divertente. Si tratta ancora una volta di una pochade francese portata al cinema con diligenza e grande cura formale. Salce non si fa pregare per seguire la moda imperante della commedia sexy, realizza diverse scene piccanti e fotografa alcuni nudi parziali della Melato. In questo periodo Salce interpreta molti ruoli come attore comico della commedia sexy, si tratta di parti consistenti e di rapidi cammei dove realizza la caricatura dell’italiano medio pieno di difetti e con in testa solo il sesso.

   Il…belpaese (1977) vede ancora all’opera l’accoppiata Salce – Villaggio per un tentativo non riuscito di satira politica, annacquato dalla penna poco felice di Castellano e Pipolo. Ride bene… chi ride ultimo (1977) è un nuovo film a episodi diretto da Pino Caruso, Marco Aleandri (Vittorio Sindoni), Gino Bramieri e Walter Chiari. Luciano Salce è soltanto attore nel divertente La visita di controllo, vera e propria commedia sexy girata dall’inesperto Aleandri, che racconta una storia di corna e mette in mostra la bellezza di Orchidea De Santis. Tanto va la gatta al lardo…(1977) è ancora un film a episodi interamente girato da di Marco Aleandri (Vittorio Sindoni). Luciano Salce ha un ruolo da protagonista assoluto insieme a Macha Meril, Orchidea De Santis e Valentina Cortese ne Le tre verginelle, storie di tre (splendide) zitelle che non vedono l’ora di farsi violentare. Nello stesso film troviamo Salce nel ruolo di un integerrimo magistrato in Processo per direttissima, satira sul mondo del calcio e i tifosi maleducati. Dove vai in vacanza? (1978) è ancora un film a episodi diretto da Mauro Bolognini, Alberto Sordi e Luciano Salce, che firma l’episodio Sì buana con Paolo Villaggio e la bellissima Annamaria Rizzoli.Il film è ottimo, uno dei migliori prodotti della commedia sexy, composto da tre memorabili ritratti dell’Italia di fine anni Settanta, tre episodi intrisi di umorismo e trovate geniali. buana è scritto da Continenza e Scarpelli ed è una sorta di parodia di un romanzo d’avventura ambientato in Africa, con un Villaggio scatenato a suon di rutti e circuito dalla bionda Rizzoli. L’episodio racconta le disavventure di Villaggio coinvolto nell’omicidio dell’amante della Rizzoli (Daniele Vargas) e si ricorda anche per il sexy costume panterato della bionda attrice. Villaggio è molto bravo e le scene comiche da allupato cronico alle prese con tanta bellezza sono memorabili. A Mereghetti il film non piace, forse perché siamo nel campo della commedia sexy, visto che definisce i tre episodi “pecorecci, inutili e qualunquisti”.

   Professor Kranz tedesco di Germania (1978) è ancora un film targato Salce – Villaggio, che porta al cinema una vecchia macchietta televisiva, un personaggio di psicologo tedesco davvero sopra le righe. La storia è ambientata in Brasile, tra le favelas di Rio, racconta le vicissitudini di un gruppo di perdenti, ma non è molto riuscita, resta solo una farsa non molto divertente. Ridendo e scherzando (1978) è un nuovo film a episodi di Marco Aleandri (Vittorio Sindoni) che sceneggia alcune macchiette sul permissivismo della nostra società. Salce interpreta un marito inibito in Nozze d’argento, commedia sexy con la partecipazione di Didi Perego e Licinia Lentini. Riavanti, marsh! (1979) è commedia sexy in versione militaresca, interpretata da Alberto Lionello, Aldo Maccione, Carlo Giuffrè, Renzo Montagnani, Silvia Dionisio, Olga Karlatos, Anna Maria Rizzoli e Stefano Satta Flores. Un film goliardico sul richiamo alle armi di cinque quarantenni che gioca sui soliti doppi sensi della commedia erotica. Salce ha fatto di meglio ma se la cava con dignità.

   Rag. Arturo De Fanti bancario precario (1980) è ancora un Villaggio movie, in edizione extra Fantozzi, ma il suo personaggio è molto simile a quello dell’impiegato imbranato. Ci sono Catherine Spaak, moglie trascurata, Enrica Bonaccorti, servetta tutto pepe che non esita a mostrare tette, cosce e sedere, ma anche la bellezza prorompente di Anna Maria Rizzoli, amante del ragioniere. La casa si trasforma in una comune dove convivono consorti e amanti per superare le difficoltà economiche. Gigi Reder e Anna Mazzamauro non possono mancare, ma c’è pure Carlo Giuffrè per una pellicola che è una via di mezzo tra la pochade e la commedia degli equivoci.

   Vieni avanti cretino (1982) è il film cult di Lino Banfi, l’apoteosi di un comico di razza che interpreta alcune scenette da avanspettacolo in un film senza né capo né coda, ma proprio per questo affascinante. Luciano Salce si ritaglia un cammeo nella parte di se stesso e ridicolizza il povero Banfi nella parte iniziale, come se fosse un novello Derege. Franco Bracardi, Gigi Reder, Michela Miti, Luciana Turina e Paolo Paoloni sono i protagonisti di una farsa che ricorda i tempi passati del teatro comico. Alcune parti del film sono indimenticabili, anche se (o forse proprio per quel motivo) spesso si cade nel trash. Ci piace ricordare questa pellicola come il vero canto del cigno di Luciano Salce, perché dopo gira controvoglia il modesto Vediamoci chiaro (1984), con Johnny Dorelli nei panni di un finto cieco circondato dalle sensuali Janet Agren ed Eleonora Giorgi. Salce conclude la carriera con il televisivo Gli innocenti vanno all’estero (1984) e con il pessimo Quelli del casco (1988), film giovanilistico che non vede nessuno, dove recita pure un cammeo nella parte di un vescovo. Luciano Salce muore a Roma il 17 dicembre 1989.

La voglia matta è un illustre antesignano della commedia sexy incentrato sul personaggio della lolita, interpretato da una maliziosa Catherine Spaak, che fa perdere la testa a un maturo professionista, immortalato da un grande Ugo Tognazzi. Luciano Salce firma regia, soggetto e sceneggiatura, anche se collaborano alla scrittura del film Castellano e Pipolo. La storia è ripresa da Una ragazza di nome Francesca di Enrico La Stella, contenuta nella raccolta Racconti d’Estate. Le musiche sono di Ennio Morricone e pescano a piene mani tra molti successi discografici anni Sessanta. Interpreti: Ugo Tognazzi, Catherine Spaak, Gianni Garko, Franco Giacobini, Jimmy Fontana, Beatrice Altariba e Luciano Salce.

   Antonio Berlinghieri (Tognazzi) è un trentanovenne ingegnere milanese, separato, con amante e circondato da belle donne. Si trova in viaggio diretto a Pisa con la sua spider Alfa Romeo, per andare a portare un regalo al figlio che conosce appena – affidato ipocritamente alle cure di una scuola cattolica – ma si trova a passare un giorno e una notte insieme a un gruppo di ragazzi in vacanza al mare. Francesca (Spaak) è una maliziosa lolita di quindici anni (in realtà ne ha diciassette) che seduce con la sua fresca bellezza il maturo uomo d’affari. Antonio si renderà ridicolo di fronte a lei e al gruppo di ragazzi solo per ottenere un bacio, una speranza d’amore, per soddisfare la sua voglia matta di possedere un corpo giovane e bello. Il film mette in scena uno scontro generazionale tra il quarantenne che si sente vecchio e non ascoltato in un gruppo dove i suoi valori non hanno alcuna importanza. Antonio ripensa al suo mondo dove le donne ridono alle sue battute, come fanno pure i sottoposti, ma si rende conto che si tratta di puro compiacimento. I giovani sono sinceri e non hanno bisogno di adularlo, quindi non si sentono obbligati a ridere di storielle vecchie come il mondo. Salce è molto sarcastico: non mancano le frecciate per il borghese che non vuole invecchiare e aspira alle grazie acerbe della ragazzina, ma stigmatizza pure l’ignoranza dei giovani che non sanno chi sia Mussolini. “Sempre di Stalin e di Hitler si parla. Parliamo un po’ di Sinatra!”, dice una ragazzina dimostrando tutto il disimpegno dei giovani in un periodo storico caratterizzato dal riflusso. Tognazzi dà vita a un personaggio patetico e senza speranza, ridicolo fino alla fine, quando si trova solo sulla spiaggia con un pugno di mosche in mano ed è costretto a riprendere la solita vita. Un uomo che vede le donne solo “in orizzontale” si trova a scendere tutti i gradini della degradazione morale di fronte alla fresca esuberanza di una ninfetta provocante.

   Catherine Spaak è a rischio censura in numerose scene, quando mostra le spalle nude, maglione corto e lunghe gambe, un audace bikini, ma anche quando si concede a baci appassionati tra le braccia di ragazzi e sulla spiaggia accanto all’ingegnere. Perfetta come lolita maliziosa che irretisce un uomo maturo, perso nel sogno di eterna gioventù che gli permetterebbe di conquistare una ragazzina. Emblematica la parte onirica dove Antonio si immagina sposato con Francesca e la presenta agli amici come una ragazzina che non riesce a comportarsi in maniera adulta. La crisi del quarantenne che cade tra le braccia della lolita è descritta in maniera credibile, tratteggiando la figura di un uomo che perde la testa e sogna una storia d’amore impossibile. Francesca si bacia in auto con uno dei tanti fidanzati, parla volgare, scandalizza il perbenismo borghese di Antonio, lo spinge a guidare come un folle, provocando un malandrino contatto con le sue gambe. Catherine Spaak è un’attrice francese naturalizzata italiana, proviene da una famiglia belga composta da attori, uomini di cinema e politici. Debutta nel cinema a soli quattordici anni ne Il buco (1959) di Jacques Becker, mentre in Italia il primo ruolo da lolita è ne I dolci inganni (1960) di Alberto Lattuada, visto che ha soltanto quindici anni e interpreta lo stereotipo dell’adolescente spregiudicata. Un volto sorridente, capelli biondi pettinati a caschetto e splendidi occhi chiari ne fanno un’icona sexy del lolitismo con un personaggio tipico che verrà riproposto in numerosi film nel corso degli anni Sessanta.

   La voglia matta è una pellicola caratterizzata da molte scene e battute maliziose, ancora oggi risulta interessante come precursore della moderna commedia erotica.  La regia di Salce è a metà strada tra le ambizioni d’autore e il lavoro artigianale del confezionatore di momenti comici incastonati con il meccanismo del flashback e degli sketch. Il finale è triste e malinconico, quasi felliniano. “Che rabbia. L’estate è finita e adesso viene l’autunno”, mormora Francesca. L’ingegnere fa già parte del passato, di una notte d’estate, di un soffio di vento giovanile che spazza via i momenti del quotidiano. Antonio riprende la strada dal punto preciso in cui l’aveva interrotta, distrutto moralmente, convinto che il tempo migliore della sua vita è irrimediabilmente perduto.

Oh dolci baci e languide carezze può essere definito un matusa movie, ma anche un film sessantottino, costruito a difesa delle certezze borghesi contro la contestazione giovanilistica.

   Luciano Salce è sceneggiatore e interprete principale, nei panni dell’ingegner Carlo Valcini, che si lascia irretire e sfruttare da una spigliata Isabella Rey. Il film racconta la storia della sbandata per una ragazzina hippy che rovina un maturo borghese con moglie, figli e solida posizione. Salce sfoggia la sua mimica espressiva per dare vita alla maschera dell’innamorato che si fa sconvolgere la vita da una giovanissima. Non sono allo stesso livello le protagoniste femminili, soprattutto Isabella Rey, che viene da un film con tematica simile (ma più drammatico) come La bambolona (1968) di Franco Giraldi, interpretato da Ugo Tognazzi. Isabella Rey adesso è nota come film maker e musicista. Ricordiamo anche un non accreditato Lino Banfi che dà vita a un bel duetto comico in prigione insieme a Luciano Salce. Banfi è un galeotto omosessuale, che si definisce un battitore libero, ricorda quando aveva capelli lunghi e fluenti sule spalle e si esprime con un divertente accento pugliese. Non è ancora il Banfi della commedia sexy, ma sta crescendo.

   Il film si fa portavoce di una morale borghese conservatrice, insolita per Salce, che comunque non è regista ma solo sceneggiatore e non ha grandi responsabilità.  I giovani sono descritti come perdigiorno dediti all’amore libero e alla contestazione, fumano marijuana, non lavorano, ballano, tradiscono, si approfittano delle situazioni e non hanno veri ideali. La pellicola possiede un valore storico perché documenta la prima musica discoteca sotto forma di colonna sonora, realizza un ritratto della Roma a misura d’uomo di fine anni Sessanta  e descrive una borghesia d’altri tempi che circola in Mini Minor. Guerrini si sforza di inserire elementi realistici nella trama, citando i fatti di Valle Giulia, mostra un ragazzo ferito dopo gli scontri con la polizia, fa parlare la radio e lascia intuire perché non dispone dei mezzi per rappresentare. Il regista mette due generazioni a confronto, con diverso slang, modi di vestire e atteggiamenti inconciliabili. Salce sprofonda nel ridicolo quando tenta di ringiovanirsi, taglia i baffi, getta giacca e cravatta, si veste da ragazzino e compra una moto da corsa. La comune di hippyes prolifera accanto alla sua fabbrica e l’ingegnere matusa la tollera nella speranza di finire a letto con la ragazzina. Sono interessanti alcune parti oniriche con Salce che sogna se stesso con un basco da rivoluzionario alle prese con le forze dell’ordine, ma anche mentre immagina di presentare la ragazza in famiglia. Il matusa è sempre fuori sintonia con i ragazzini che ballano il rock, fumano, praticano sesso in maniera spregiudicata e parlano una lingua ignota. Salce si adegua, impara che paccare sta per pomiciare e fa sfoggio di cultura giovanilistica con la figlia che ne rimane impressionata. Guerrini inserisce alcune cariche della polizia ma nei limiti della commedia, mostra le scalinate di Piazza Navona liberate dalla presenza di giovani innocui, fa comparire il pullmino Wolkswagen, tipica vettura da figli dei fiori. Non mancano le feste psichedeliche a base di alcol, ballo, sesso e marijuana, ma anche nudi femminili esibiti con sfrontatezza e pure nelle docce. A tratti si comincia a intuire un’atmosfera da commedia sexy, ma non siamo ancora nel genere. Il finale vede scattare la trappola che denuncia la morale borghese della pellicola. La ragazzina inguaia il matusa con un pacchetto di sigarette drogate, lo fa mettere in galera e condannare dopo un rapido giudizio. Lo scandalo travolge la famiglia borghese, mentre al processo i figli dei fiori vestono da bravi ragazzi e recitano la parte delle vittime. Isabella Rey sfoggia una mise da studentessa con grembiule, occhiali e lunghe trecce da ingenua prima della classe. Salce è un mostro violentatore di minori che finisce in prigione e può solo mormorare nel cellulare della polizia: “Mi hanno accusato di sacrilegio. Ho attentato alle virtù di una vacca, una vacca sacra”. Non è un capolavoro, ma merita la visione.

Basta guardarla (1970) è uno dei migliori film di Luciano Salce perché unisce in un solo lavoro comicità, nostalgia del tempo passato, ironia, umorismo caustico e ricordi di un teatro di rivista che non esiste più. Il soggetto è di Iaia Fiastri, la sceneggiatura dello steso Salce con la collaborazione di Steno, la fotografia di Aiace Parolin, la musica di Franco Pisano, il montaggio di Marcello Malvestito, le scenografie sono di Luciano Spadoni e i costumi di Luca Sabatelli. La produzione è Mario Cechi Gori per Fair Film. Il cast è notevole: Maria Grazia Buccella, Carlo Giuffrè, Mariangela Melato, Luciano Salce, Franca Valeri, Pippo Franco, Riccardo Garrone e Umberto D’Orsi. Il meglio della comicità del periodo dà vita a un film – memoria dell’avanspettacolo e racconta le vicissitudini di una piccola compagnia teatrale che si esibisce nei paesi più sperduti della nostra provincia. 

   Maria Grazia Buccella è una contadinella ciociara a servizio da uno zio prete, sogna di fare la ballerina, si innamora del cantante Silver Boy (un fantastico Carlo Giuffrè) e alla fine riesce a farsi scritturare dalla sua compagnia. Pippo Franco, nei panni del gay Danilo, trasforma la contadinella in una donna interessante, la depila, le toglie gli abiti da lavoro, la veste da soubrette e le insegna a ballare. Il film si sviluppa così, come un’epopea degli artisti di poco conto, attori da avanspettacolo che nessuno conosce, ma che portano la loro passione nei teatri di provincia. Salce costruisce una bella storia d’amore e passione tra Silver Boy ed Enrichetta Rikk (Buccella), contrastata dalla gelosa e focosa spagnola Marisa (Mariangela Melato) che fa di tutto per eliminare la rivale. A un certo punto del film entra in scena un’altra compagnia di guitti, capeggiata da Farfarello (Salce) e dalla moglie Pola (Franca Valeri), che porta via Enrichetta. In questa pellicola non è tanto importante la trama, quanto il quadro di un’Italia che non esiste più, dalle campagne ciociare dove una ragazzina può sognare di fare la ballerina, diventare attrice e innamorarsi di un cantante come Silver Boy, per arrivare al sapore delle tavole sconnesse dei palcoscenici di periferia. Carlo Giuffrè è bravissimo nella caratterizzazione di un cantante romantico che veste sempre con impermeabile nero, porta occhialoni da sole, fa innamorare le donne, interpreta languide storie strappalacrime, ma se serve esegue pezzi comici. Mariangela Melato è al suo primo film, dimostra bravura e temperamento nei panni di una focosa ballerina spagnola che non tollera rivali. Maria Grazia Buccella è bella e sensuale, ma recita anche una buona parte comico – drammatica, non si limita a mostrare le grazie procaci, come già aveva fatto in Ti ho sposata per allegria (1967), sempre sotto l’attenta guida di Salce. La Buccella è credibile sia come contadinella baffuta mentre addenta un enorme panino e serve il pranzo allo zio prete, che come interprete maliziosa del Cocoricò, numero che ne decreta il successo popolare. Pippo Franco versione gay fa intravedere la futura bravura da attore comico ed è il Pigmalione della nuova Enrichetta, parrucca bionda e fisico mozzafiato. “Questa ragazza c’ha il teatro nel sangue. Basta guardarla!” esclama Giuffrè, allungando la vista sulle lunghe gambe della Buccella e spiegando il motivo del titolo.

   Luciano Salce è bravissimo come regista, dosa a dovere le parti ironico – melodrammatiche e i siparietti desunti con rigore filologico dal teatro di rivista, costruendo un capolavoro di nostalgia, ma anche una storia d’amore e tradimenti che si segue con passione.

   Basta guardarla è una protocommedia sexy, perché contiene in nuce molti elementi di un genere ancora in formazione, soprattutto l’esibizione della bellezza di Maria Grazia Buccella, a dire il vero molto castigata. Sono interessanti anche le parti oniriche, velate di musica soffusa e fotografia flou, gli inserti da fotoromanzo con i sottotitoli ammiccanti, gli incontri amorosi tra Giuffrè e la Buccella, i sogni a occhi aperti della ragazza che non perde mai il suo habitus di ingenua contadinella. I numeri prelevati dal teatro di rivista sono una delle cose più divertenti della pellicola, a partire dal Cocoricò, il pezzo più trash del mondo cantato con voce sensuale da una Buccella – gallinella procace e interpretato da un mitico Giuffrè – galletto. Pare una versione anticipata delle ragazze Coccodè di arboriana memoria e non è escluso che lo showman pugliese si sia ispirato proprio a questo film. Luciano Salce interpreta il ruolo di Farfarello, un capo comico che ha come moglie la bravissima Franca Valeri, personaggio fondamentale nell’economia del film. Il ruolo dovrebbe andare a Ugo Tognazzi, ma ci sono problemi di incompatibilità con altri impegni dell’attore milanese, così Salce decide di fare da solo e ci regala uno dei suoi migliori personaggi. Farfarello è un egocentrico, divenuto impotente dopo uno shock violento (un marito geloso che brandisce un coltello), continua a propagandare la sua fama di latin lover con la complicità della moglie che ogni sera lo interrompe sul più bello perché non faccia cattiva figura. Farfarello scrittura Enrichetta, la trasforma in Erika Rikk e la inserisce nei suoi spettacoli che sono quanto di più volgare abbia prodotto l’avanspettacolo. I doppi sensi a tema sessuale si sprecano (“Aboliremo le tasse! Sì, col cocchio!”), inseriti in scenografie storiche dove la Valeri canta “Piramidal, il mio fascino egizio…” e la Buccella è prima ballerina. La dura legge del teatro porta la Buccella in primo piano quando la Valeri si infortuna sulla scena. Silver Boy, intanto, beve, stecca le canzoni, litiga con il pubblico, perché vorrebbe riavere la sua Erika e comprende che non era una passione fugace, ma vero amore. Sono molto divertenti le parti che descrivono un’improbabile fuga d’amore a Civitavecchia, nello squallore del mare melmoso, a bordo di una barchetta scassata e nelle stanze di una pensioncina di quart’ordine. Tutto in sintonia con la condizione di attori scalcinati. 

   Salce prosegue citando diversi numeri di avanspettacolo, scelti tra i pezzi più bassi e volgari: l’autobus (“che piacere… che piacere che si prova nel sedere…”), Via col razzo, Poppea sali sul cocchio, Che Cassio vuoi… e via di questo passo. Umberto D’Orsi è un’ottima spalla che asseconda la verve istrionica di Salce, mentre Riccardo Garrone non ha grande spazio, racchiuso nel modesto personaggio del produttore Pedicone.

   Il film presenta alcune parti erotico – ironiche con la Buccella che offre il suo corpo a Farfarello, “un uomo che non ama”, stile fotoromanzo di bassa lega, ma il capo comico è impotente e non ne approfitta. Maria Grazia Buccellla dimostra tutta la sua bravura di attrice completa e di showgirl, nel finale esce da una gigantesca conchiglia e canta la sensuale Venere 2000 (“Sono Venere 2000, sono disponibile a tutto…”), prima fischiata da un pubblico pagato e subito dopo acclamata. La pochade prende il sopravvento con una bagarre finale a base di cazzotti, seggiole divelte e colpi proibiti. Ha la peggio Silver Boy che finisce in ospedale dopo essere stato colpito dalla spagnola in un eccesso di ira gelosa. Il finale registra il trionfo dell’amore tra Silver Boy ed Erika Rikk, ma anche un nuovo shock per Farfarello che recupera la virilità perduta. I due innamorati si ritrovano in ospedale, cantano la loro canzone, progettano un ritorno sulle scene, mentre una marcia nuziale tra suore e malati li accompagna verso la dissolvenza finale. Scorrono sui titoli di coda i finti commenti della stampa estera che registra con soddisfazione un film capolavoro. Salce ironizza su se stesso e non si prende sul serio.

   Basta guardarla è una struggente rievocazione del teatro di rivista, eseguita con tratto da maestro e con leggerezza, seguendo il racconto romantico di una protagonista ingenua e innamorata. Salce cita con dovizia di particolari vecchi numeri dell’avanspettacolo e li riproduce sul set con bravura e rigore enciclopedico. Il film non è volgare anche se recupera le battute di quel teatro, perché vengono inserite sotto forma di citazioni e ricordi di un mondo scomparso. 

Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno (1974)  rappresenta l’incontro tra Luciano Salce e Paolo Villaggio, ma sono importanti anche Eleonora Giorgi e Orchidea De Santis per realizzare una satira graffiante del mammismo e degli ambienti nobiliari. Federico (Villaggio) ha trent’anni ma la madre (Kedrova), oppressiva e premurosa, non lo lascia crescere, lo veste come un bambino, lo nutre con olio di fegato di merluzzo e lo guida impartendo ordini secchi e decisi. Federico sfoga la sessualità repressa su bambole gonfiabili che fa arrivare dalla Danimarca, mito erotico di una generazione di adolescenti che fantasticava sulla presunta libertà sessuale dei paesi scandinavi. Il suo rapporto con la madre è di amore – odio, una sorta di complesso di Edipo irrisolto, che porta Federico a compiere scherzi feroci nei confronti della donna e a tentativi abortiti per liberarsi della sua dominazione. Il tono del film è surreale e grottesco, a tratti soffuso di erotismo morboso e da un’ironia che salva i momenti più cupi.

   Luciano Salce tocca anche il tema omosessuale, citando Freud e la paura del sesso femminile, ma resta in superficie con la descrizione di una coppia gay di maniera che odia le donne e tenta di violentare Federico. La vita del ragazzo cambia quando viene assunta a servizio la nipote della vecchia serva morta in un incidente domestico. La bellezza di Angela (Giorgi) conquista Federico, anche se la ragazza cammina zoppicando, ma non solo lui, perché tutti gli uomini della casa provano a metterle le mani addosso. Alcune parti erotiche sono citazioni – omaggio di Malizia (1973) di Salvatore Samperi. Basti pensare a Eleonora Giorgi che sale su una scala mentre lo zio (Faà Di Bruno) osserva e accarezza le gambe, oppure alla sequenza della vestizione in camera da letto con Federico che spia e dispone alcune monete sul suo corpo. Tra Angela e Federico nasce l’amore, lui le regala lo smeraldo di fidanzamento della madre, ma la megera se lo riprende con la forza. Alla fine il rapporto sessuale tra Federico e Angela si consuma ai piedi del letto della madre che quando li sorprende è colta da un malore. Angela viene cacciata di casa e il figlio torna a festeggiare il compleanno della madre nel castello. La ragazza non si dà per vinta e cerca di riprendersi il suo amore, ma la madre preferisce ammazzare il figlio piuttosto che concederlo a un’altra donna.

   Il film è intriso di sequenze erotiche, spesso morbose, violente, malsane, a volte solari e liberatorie. Citiamo la pubblicità erotica immortalata dai cartelloni, il matrimonio di Orchidea De Santis mentre Villaggio fotografa le gambe delle donne da una graticola, una prostituta pagata per eccitare il ragazzo, le pose amorose con le bambole gonfiabili, le sequenze con la Giorgi mentre fa il bagno nuda e Villaggio spia dalla porta socchiusa. Molto sexy le scene con Eleonora Giorgi sul letto mentre si lascia massaggiare i glutei, ma anche quando si mostra nuda sul tavolo di cucina. L’atmosfera erotico – morbosa è spesso ad alti livelli, tra sequenze di feticismo, voyeurismo e brevi istanti di puro romanticismo. Molta cattiveria nella critica alla nobiltà che sfoggia perbenismo e carità ma in fondo disprezza i poveri, come dimostra la sequenza dei supplì a base di sassi e la penosa caccia allo smeraldo.

   Paolo Villaggio è bravissimo, interpreta un figlio imbranato e succube non facile da rendere credibile, soprattutto per le debolezze erotiche e per le fantasie morbose. Orchidea De Santis è impiegata in un piccolo ruolo, seduce pure lei Federico, mostra un seno nudo, ma il regista decide di imbruttirla (impresa non facile!) per sottolineare l’ironia della partecipazione. Eleonora Giorgi è bella e sexy, regala plastici nudi integrali, nel bagno, in camera, davanti allo specchio, persino sulla tavola di cucina e ai piedi del letto della madre di Federico. Antonino Faà Di Bruno non è un attore professionista (colonnello dei granatieri in pensione), ma interpreta con disinvoltura lo zio di Federico affetto da Parkinson che lo chiama Pipetta e gli rinfaccia una presunta omosessualità. Lila Kedrova è una perfetta madre oppressiva che non lascia respirare il figlio e sfoga la sua perfidia con la servitù. 

   Il film è una commedia erotica di taglio psicologico, molto freudiana, ma non riscuote un grande successo, forse perché esce dopo Per amare Ofelia di Flavio Mogherini, che affronta una tematica simile ed è interpretata da Renato Pozzetto, per la prima volta sul grande schermo e all’apice del successo televisivo. Paolo Villaggio e Luciano Salce si rifaranno con Fantozzi

Ogni volta che mi si chiede di parlare di Luciano Salce lo faccio sempre con immenso piacere e sono grata a chi me ne dà l’opportunità. È stato il primo regista che incontrai ancora praticamente bambina per un provino che non mi fece nemmeno fare perché ero troppo piccola, ma come frequentemente accadeva, rimase colpito dal mio nome insolito. Per cui dopo alcuni anni – siamo nel 1967 -, quando finalmente fui scelta per interpretare un bel ruolo in Come imparai ad amare le donne, film tra l’altro con un cast straordinario, toccai il cielo con un dito.

   Negli anni Sessanta, Luciano Salce era nella rosa dei registi più importanti del momento, per cui quando mi assegnò quel ruolo per me fu come scalare il primo gradino che mi avrebbe portato al riconoscimento ufficiale di attrice. Purtroppo il mio incontro con Salce è avvenuto nel momento in cui iniziava una non meritata fase calante della sua carriera, che si riprenderà – anche se per breve tempo – con Fantozzi.

   Verso la fine degli anni Sessanta, Salce mi propone un altro ruolo in Colpo di Stato, film a lui molto caro, insieme a Il Federale, La voglia matta, La cuccagna e Le ore dell’amore. Nel 1973 prepara, con Franciosa e Corbucci sceneggiatori, un film pensato per Paolo Villaggio: Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno, liberamente tratto dall’opera teatrale di Rafael Azcona e Luis Berlanga. In quella pellicola mi assegna un piccolo ma incisivo ruolo e per interpretarlo mi devo sottoporre a un imbruttimento. Purtroppo la pellicola non venne apprezzata come avrebbe meritato, premiando invece Per amare Ofelia di Flavio Mogherini, che presentava un tema simile e uscito nelle sale proprio mentre giravamo il nostro film. A mio parere il successo fu merito della presenza di Renato Pozzetto come protagonista, alla sua prima apparizione cinematografica. Salce, che vedeva negli attori qualcosa che andava oltre l’ovvio, in me intuiva quella parte ironica, quel giocare con me stessa non prendendomi mai sul serio e questo credo che con lui fu la carta vincente. Regnava sempre una bella atmosfera durante le riprese dei film di Salce e anche qui la professionalità, il rigore sul set che esigeva il regista, senza mai altezzosità, si mischiava con quella giusta dose di divertimento garbato ed elegante come era la persona preposta alla direzione di quel delicato compito destinato all’intrattenimento.     Luciano Salce spesso si divertiva a passare dall’altra parte della cinepresa: ho recitato spesso con lui ed era molto più divertente che con qualsiasi altro attore. Salce è stato uno degli uomini di cinema più intelligenti che ho conosciuto e chi è stato in stretto contatto con lui non può che darmi ragione. Era così intelligente che aveva un altissimo senso critico di stile anglosassone. Persona raffinata, elegante, mai volgare e soprattutto dotato di grande auto ironia che spesso usava per prendersi in giro. Chi ricorda le sue apparizioni televisive certamente avrà colto il senso di ciò che sto dicendo. Era dotato di una personalità agro dolce stemperata da un sentimentalismo sincero e onesto. Possedeva un’umanità straordinaria che spesso metteva da parte e sembrava cinico, ma il suo era un cinismo di copertura. Come tutti i personaggi del mondo dello spettacolo era vanitoso ma non si dava mai arie, non amava farsi notare e mettersi in mostra. Si può dire che ha avuto meno fortuna di altri colleghi  proprio per questo motivo oltre a non aver mai fatto parte di nesuno schieramento politico. Come ha detto Paolo Villaggio, durante la conferenza stampa dell’omaggio da me reso al regista alla Casa del Cinema di Roma, nel febbraio del 2006,  Salce non è stato dimenticato ma ha impostato la sua vita professionale non per essere ricordato, mentre invece c’è gente che si organizza ancora in vita per avere un grande funerale e per lasciare un’impronta importante.

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