Il delitto Pasolini

Articolo di Gordiano Lupi

A novembre del 1975 si consuma il più grave delitto che vede protagonista un uomo di cinema, un poeta e un letterato di grande spessore culturale. Pier Paolo Pasolini muore all’idroscalo di Ostia  e ancora oggi ci chiediamo come tutto questo possa essere accaduto su quel lungomare disadorno e spoglio. Un campo di calcio amatoriale recintato da una rudimentale rete di protezione, tra sporcizia e odori di miseria, erbacce, sterpaglie, case diroccate dalle finestre inchiodate con il cartone e ancora da costruire, alberi scheletriti e un pugno di polvere. Questo il panorama del delitto che ha visto Pasolini morire come uno dei suoi protagonisti, per mano di un ragazzo di vita nel pieno della sua vita violenta. Il corpo di Pasolini viene ritrovato in mezzo al campetto sterrato, vicino a una palizzata di tavole rosa e verdi e proprio una di quelle tavole è servita a ucciderlo. Vicino al campo principale dove Pasolini muore c’è un altro campetto sterrato e poi ancora più lontano baracche di lamiera e legno, case di povera gente e ragazzini che giocano a pallone. Il cadavere del regista è gettato come un sacco di immondizia accanto a una panchina, lo scopre Maria Teresa Lollobrigida, casalinga di 46 anni, moglie del manovale Alfredo Principessa. I due coniugi vanno ogni domenica di buon mattino all’idroscalo, dove stanno costruendo una casetta per passare l’estate. Pensano che in mezzo al campo ci sia un po’ di sporcizia da gettare, poi la moglie si rende conto che è un cadavere con la testa fracassata e i capelli impastati di sangue. Il corpo è a faccia in giù, con le mani sotto, vestito male, con una canottiera verde a maniche corte, blue-jeans macchiati di grasso di macchina, una cintura marrone e stivaletti marroni alti fino alla caviglia. Moglie e marito sono i primi ad avvisare la polizia che alle 6 e 40 di domenica 2 novembre si mette in moto per ricostruire la vicenda. Nessuno immagina che quell’uomo dal volto sfigurato, un orecchio reciso, le mani abrase, il torace informe possa essere Pier Paolo Pasolini.

È la notte di Halloween, tra sabato primo novembre e domenica due novembre, quando alle una e mezza la polizia ferma una Giulia 2000 Alfa Romeo grigia che sfreccia sul Lungomare Duilio di Ostia. A bordo c’è Giuseppe Pelosi, diciassette anni e quattro mesi, detto Pino “la rana”, un ragazzo con precedenti penali per furto d’auto e atti di teppismo. Non è molto che è uscito dal carcere minorile di Casal del Marmo dove ha scontato la sua ultima condanna. Dopo un primo sommario controllo i carabinieri si rendono conto che l’auto appartiene a Pier Paolo Pasolini. Pelosi viene portato al comando dove è sottoposto a un pressante interrogatorio, durante il quale chiede più volte che gli vengano restituiti un accendino e un anello con una pietra rossa dove c’è scritto United States. Il particolare pare insignificante e strano ma seguendo lo sviluppo della vicenda ci accorgiamo che non lo è per niente. Passano alcune ore e il ragazzo viene colto da una crisi isterica che lo porta a gridare più volte: “Mamma mia, cosa ho fatto!” e subito dopo cade addormentato. Per i carabinieri non è facile mettere in connessione gli eventi e l’unica cosa logica da fare è quella di telefonare a casa Pasolini. Il regista non è ancora rientrato e il fatto pare strano, anche se capita spesso che Pasolini faccia tardi e che non rientri a dormire. Risponde al telefono Graziella Chiarcossi, figlia di una cugina di Pier Paolo che da quando è contrattista all’Università vive in casa con il regista e con la mamma Susanna Colussi. Graziella avverte Ninetto Davoli che la sera prima ha cenato con Pasolini al ristorante Pommidoro al Tiburtino, ma pure lui non sa niente dell’auto rubata. La famiglia di Pasolini è preoccupata e Ninetto telefona ai carabinieri per avere notizie. Solo alle sette del mattino si scopre la triste verità ed è proprio Ninetto che deve riconoscere il corpo massacrato di una persona che gli è stata molto cara. Il famoso anello smarrito da Pelosi e richiesto dal ragazzo durante l’interrogatorio viene ritrovato accanto al morto dagli agenti di polizia che cercano reperti utili per le indagini. Vicino al cadavere non c’è solo l’anello, ma anche un’asse di legno divisa in due con sopra molto sangue e un po’ di materia cerebrale. Pasolini è morto così, con la testa fracassata da colpi inferti con una tavola di legno. Pelosi comincia a confessare la verità e dopo molto tergiversare racconta che verso le dieci della sera prima è stato avvicinato da un “frocio” sotto i portici del piazzale della Stazione Termini. Pelosi è un ragazzo di vita come tanti ne ha descritti Pasolini nei suoi film e nei romanzi, uno che fa marchette e il posto migliore per rimorchiare sia donne che uomini è proprio la stazione ferroviaria. Pasolini non è solito frequentare la Stazione Termini, non ama la promiscuità e il furtivo, però da due anni sta scrivendo l’enorme romanzo (rimasto incompiuto) Petrolio e tra quella gente trova materiale utile ai suoi fini letterari. Il romanzo progetto è stato pubblicato postumo, pure se è soltanto un abbozzo informe e non sappiamo dire quanto sia stata felice la scelta di renderlo pubblico, pure se l’opera di un artista non può essere occultata. C’è chi ha detto che Pasolini avesse già conosciuto Pino “la rana”, ma non è possibile esserne certi. Sappiamo solo che in quella notte avviene l’ultimo incontro nella piazza dei Cinquecento, dopo che Pier Paolo è uscito da Pommidoro e ha salutato l’amico Ninetto. Pelosi è un personaggio che affascina Pasolini perché incarna il tipico ragazzo di borgata, quello che lui ha descritto e immortalato in tante scene. Basta vederlo nelle foto che lo ritraggono appoggiato a un albero, giubbotto, jens attillati, fronte stretta e capelli ricci, mani in tasca, sorriso malandrino. Un ragazzo di vita proprio come piacciono a Pasolini, un ragazzo che lo attrae con forza e che si sente quasi costretto ad avvicinare. Pino “la rana” è un suo volto, uno che Pier Paolo avrebbe scelto tra mille per inserire nel cast del Decameron o de I racconti di Canterbury, la sua espressione rientra nei modelli estetici pasoliniani. L’ossessione del grande regista per i borgatari e per i ragazzi di vita questa volta è la causa della sua stessa fine. Pelosi racconta che “il frocio” lo tallona con insistenza a bordo della sua GT, lui in un primo tempo si allontana, poi si lascia avvicinare e si fa convincere dalla promessa di un “bel regalo”. Pare chiaro che Pelosi non può non aver capito che cosa gli viene richiesto e poi lo sa bene perché se si trova alla Stazione Termini non è certo per fare conversazione con gli amici. Pino “la rana” sale a bordo dell’auto guidata dal regista, poco dopo i due si fermano in una trattoria dove il ragazzo beve una birra e mangia un piatto di spaghetti e un quarto di pollo. Pasolini ha già mangiato e attende solo che il compagno occasionale termini la cena. Risalgono in auto, fanno benzina in via Marconi e quindi imboccano la via Ostiense in direzione del mare. Pasolini porta Pelosi a “fare qualcosa” in un campetto isolato che conosce molto bene e il regalo promesso sono ventimila lire. Nel verbale dei carabinieri e nella sentenza del 26 aprile 1976 del Tribunale dei Minori di Roma, firmata dal presidente Carlo Moro, si legge: “Aggiungeva il Pelosi che l’uomo lo aveva portato al campo sportivo; che gli aveva preso il pene in bocca per un minuto ma non aveva completato il bocchino; che lo aveva fatto scendere dalla macchina e gli era venuto dietro prendendolo dal di dietro e cercando di abbassargli i pantaloni; che gli aveva detto di smettere e lui invece aveva raccolto un paletto del tipo di quelli che recingono i giardini e voleva infilarglielo nel sedere o per lo meno lo aveva appoggiato contro il sedere senza nemmeno abbassargli i pantaloni; che esso Pelosi si era girato e gli aveva detto che ti sei impazzito?; che il Pasolini si era allora tolto gli occhiali che aveva lasciati in macchina e nel vederlo in viso gli era sembrata una faccia da matto tanto che aveva avuto paura; che era scappato via ma era inciampato e caduto; che si era sentito addosso il Pasolini che lo aveva colpito alla testa con un bastone; che aveva afferrato il bastone e aveva scaraventato lontano da sé il Paolo; che era nuovamente fuggito ed era stato nuovamente raggiunto e colpito alla tempia e in varie parti del corpo; che aveva visto per terra una tavola, l’aveva raccolta e gliela aveva rotta in testa; che gli aveva anche dato due calci nelle palle; che il Paolo sembrava non aver sentito neppure questi calci; che allora lo aveva afferrato per i capelli e gli aveva ancora dato una bastonata sul naso; che non ci aveva visto più e lo aveva ripetutamente colpito con la tavola finché non lo aveva sentito cadere a terra rantolante; che era scappato in direzione della macchina portando con sé i due pezzi di tavola e il paletto che aveva buttato vicino alla macchina; che subito dopo era salito in macchina ed era fuggito con quella; che non sapeva se nel fuggire era passato o non con l’auto sul corpo del Paolo; che non aveva investito volontariamente il corpo del Paolo né si era accorto di esserci passato sopra perché era sotto choc; che sulla strada alla prima fontanella si era fermato per lavarsi e togliersi le macchie di sangue; che durante i fatti erano stati sempre soli, lui e il Paolo” (1).

Questo è il racconto di Pelosi come viene fuori dal verbale e dalle sue deposizioni in Tribunale, ma Enzo Siciliano e molti altri autori contestano le affermazioni del ragazzo, soprattutto perché quando viene sorpreso dai carabinieri non ha l’aspetto di uno che esce da una rissa. La cosa che più lascia perplessi è che i suoi vestiti non sono molto sporchi di sangue e soprattutto non sono in disordine. Per Enzo Siciliano, autore di una bella “Vita di Pasolini” edita da Rizzoli nel 1978 e molto amico del regista, Pino “la rana” non ha agito da solo. L’autore fonda questa convinzione sul ritrovamento di un golf verde e di un plantare di scarpa destra all’interno dell’auto che non erano né di Pasolini e né del ragazzo. Graziella Chiarcossi ha pulito la GT di Pier Paolo il 31 ottobre e i due oggetti non c’erano. Altro indizio è dato dalla sparizione dell’accendino e del pacchetto di Marlboro che Pelosi sostiene di aver lasciato dentro la macchina. Forse una terza persona li ha portati via con sé. Nel campetto di calcio teatro del delitto ci sono altre impronte oltre a quelle di Pelosi e di Pasolini e non sono di calciatori, ma di persone che calzano scarpe da passeggio. Nell’auto ci sono macchie di sangue e non si sa chi le può aver lasciate, forse un complice di Pelosi che ha aperto la portiera dal lato del passeggero e ha appoggiato la mano sporca di sangue sulla capote. Per la sentenza le macchie di sangue possono essere state lasciate anche da Pelosi che sarebbe entrato in auto dal lato passeggero dopo il delitto, ma allora è probabile che fosse un’altra persona a guidare durante lo schiacciamento del corpo di Pasolini. Oppure il complice si siede con le mani sporche di sangue al posto del passeggero e macchia la capote. Il fatto non è stato chiarito e Pelosi non ha mai confessato la presenza di altre persone, addossandosi tutta la responsabilità del delitto. Altro elemento a favore della tesi dei più aggressori è dato dal fatto che Pelosi non ha che poche tracce di sangue sugli abiti e invece è provato che Pasolini ha una violenta emorragia interna che causa fuoriuscita di schizzi di sangue. Basta vedere la camicia del regista intrisa di sangue e la grande quantità di materiale ematico e cerebrale che si trova sparsa un po’ ovunque sul campo e sui due paletti. Pelosi esce dalla lotta con una piccola ferita sulla fronte, che si procura durante la fuga quando guida l’auto di Pasolini e frena di colpo davanti ai carabinieri, i suoi vestiti sono leggermente spiegazzati e le tracce di sangue sono poche. Pasolini invece ha il volto sfigurato, profonde ferite al cranio, un orecchio quasi strappato, le mani raschiate e le unghie maciullate. Tutto molto strano (2).

La ricostruzione dell’omicidio Pasolini che fa Enzo Siciliano diverge molto dal racconto di Pelosi. Tanto per cominciare pare che non sia stato Pasolini a rimorchiare Pelosi ma viceversa. Alcuni ragazzi della Stazione Termini presentano Pino “la rana” al regista che all’inizio è un po’ diffidente, poi vede davanti a sé la raffigurazione di uno dei suoi ideali estetici e accetta il rischio dell’incontro. Pare che Pelosi parlotti a lungo con i suoi amici della Stazione Termini prima di accettare di andare con Pasolini al campetto di Ostia. Non si sa chi dei due conoscesse l’Idroscalo, ma Pelosi dopo il delitto trova al buio una fontanella per lavarsi quindi deve sapere qualcosa del posto. L’ipotesi è che un’altra auto possa aver seguito la GT di Pasolini e che sia stato organizzato un agguato in piena regola. Questa tesi è sostenuta anche da Paese Sera in un articolo del 3 maggio 1976 a firma Franco Rossi che pubblica una lettera anonima dove si parla di una macchina targata Catania con a bordo quattro persone. Secondo la lettera anonima Pino Pelosi è solo un ladro d’auto e merita al massimo tre anni per furto, mentre i veri assassini sono i quattro ragazzi in Cinquecento che hanno minacciato di morte Pelosi se avesse osato parlare. L’idea dell’agguato a Pasolini presenta un certo fascino e non è ipotesi del tutto campata in aria, anche perché il noto polemista in quel periodo affonda più volte il coltello nella piaga del malgoverno democristiano. Pasolini pochi giorni prima della sua morte chiede una Norimberga democristiana che smascherasse le torbide trame e gli occulti giochi di potere. Negli anni Settanta i delitti politici sono all’ordine del giorno e la suggestione della diabolica messa in scena ai danni di un uomo libero e pericoloso fa presa sull’immaginario collettivo. Colpire la cultura italiana di sinistra togliendo di mezzo Pasolini con un terribile agguato, eliminare chi redige scritti velenosi sulle colonne del Corriere della Sera, raccolti postumi negli Scritti Corsari e nelle Lettere Luterane. Non dimentichiamo che sono di questo periodo sia la strage di piazza Fontana che quella dell’Italicus, eventi macabri e terribili che purtroppo non hanno ancora un colpevole. Si tratta solo di congetture non provate, certo. L’agguato a Pasolini potrebbe anche non avere natura politica ma essere un semplice delitto di malavita, una ritorsione sfociata in omicidio (3).

Il silenzio di Pelosi sul ruolo di altre persone nel delitto porta il ragazzo a prendersi una condanna per omicidio. Pino “la rana” confessa che in lui è scattato un raptus di violenza quando “il frocio voleva farmi il culo con un paletto”. Se invece si è trattato di un agguato, questo può essere avvenuto mentre Pasolini è dentro l’auto e sta chino sul ragazzo per fargli il “bocchino” di cui parla anche Pelosi. Possono averlo preso di schiena e tirato fuori dall’auto ed è allora che Pelosi esce fuori e vede Pasolini mentre è colpito più volte al capo, lo vede sanguinare mentre si sfila la camicia, si asciuga le ferite, appallottola l’indumento e lo getta nel campo. Gli assalitori lo colpiscono con un bastone e due pezzi di tavoletta che sono stati ritrovati a circa cento metri dal cadavere. Ma forse ci sono anche altri corpi contundenti che vengono occultati dopo aver fracassato il cranio del regista che zampilla sangue come una fontana. Ferite al capo e un calcio ai testicoli sono le due fasi che uccidono Pasolini che perde i sensi e cade a terra moribondo. La stessa sentenza di condanna suppone che il calcio ai testicoli sia stato dato mentre due persone tenevano fermo il regista e un terzo colpiva con forza. Pasolini tenta una fuga verso la rete di recinzione, viene raggiunto, preso per i capelli e colpito al basso ventre. Pelosi insiste che è solo lui il colpevole, che agisce in stato confusionale colpendo a casaccio con legni e tavole, poi scappa con l’auto e travolge il corpo di Pasolini, a suo dire non se ne accorge. Pasolini muore proprio così, con il cuore scoppiato sotto la pressione dei pneumatici della GT, pure se non è dato sapere chi sia stato a finirlo. Può anche darsi che l’investimento sia stato volontario, come ultimo atto del macabro delitto. Una cosa molto strana è che quando Pelosi viene interrogato pensa solo al suo accendino e all’anello rosso che è rimasto accanto al cadavere come prova di colpevolezza così evidente da sembrare quasi costruita. L’elemento dell’anello fa propendere ancora di più verso la tesi della terribile messa in scena che porti ad accusare un ragazzo di un omicidio compiuto da più persone per motivi inconfessabili. C’è chi parla anche di delitto costruito a imitazione della vita dell’artista, proprio per attirare Pasolini in un’imboscata usando un’esca irrinunciabile e per finirlo mentre sta consumando un ultimo rapporto sessuale. Altri autori sostengono invece che Pasolini cerca il suicidio per mano di un suo personaggio, che quella notte all’Idroscalo lui vuol essere ucciso e per questo motivo provoca la reazione di Pelosi. Non siamo d’accordo, perché Pasolini in quel periodo possiede ancora quella disperata vitalità che lo ha sempre caratterizzato, pure se è vero che scrive la famosa “Abiura dalla Trilogia della vita” (15 giugno 1975) e pochi mesi dopo muore.  Pasolini nell’articolo pubblicato dal Corriere della Sera esprime “odio” per “i corpi e gli organi sessuali dei nuovi giovani e ragazzi italiani” e dice che non avrebbe più potuto rappresentarli al cinema in modo gioioso e libero. Non credo che si possa leggere in questo articolo una volontà di suicidio e una rinuncia alla lotta, anche perché mai come in quel periodo Pasolini è in prima fila nella lotta politica. L’Abiura prepara il cupo Pasolini di Salò, l’uomo disilluso che contrappone alla Trilogia della Vita una programmata Trilogia della morte che si ferma al primo lavoro (lasciato in fase di montaggio) solo per colpa di una mano omicida. Secondo me non c’è nessuna volontà di suicidio nella morte di Pasolini, mentre è più probabile che sia stata la voglia di vivere come i suoi personaggi a portarlo a morire per mano di uno di quei ragazzi di vita che ha sempre cantato.

La sentenza di Appello del processo Pelosi viene pronunciata il 4 dicembre 1976 da Ferdinando Zucconi Galli Fonseca e sgombra il campo da ogni ipotesi di complotto e di agguato. Per il tribunale quella notte all’Idroscalo di Ostia ci sono soltanto Pasolini e Pino “la rana”.  La sentenza smonta il castello probatorio revocando in dubbio che tutti gli indizi possano far concludere in modo univoco per l’aggressione a opera di più persone. Il plantare è sotto il sedile e chi ha pulito l’auto può non averlo visto, il golf lo può aver lasciato qualcuno nel corso della giornata, le impronte sul campetto possono appartenere a persone passate prima dell’omicidio. Pelosi ha sul corpo poche tracce di sangue perché ha attaccato per primo e di sorpresa Pasolini. Il sangue sulla capote dell’auto può essere stato attaccato da un paletto volato in aria. Tutte le prove non sono determinanti ma restano a livello di indizio e contro di loro c’è Pino Pelosi che insiste di essere lui il solo colpevole. La confessione di Pelosi lascia molti dubbi e pare incredibile che il ragazzo non sapesse chi avesse di fronte. La sentenza di Appello sgombra il campo anche da ipotesi di sadismo da parte di Pasolini e sembra non provato il fatto che il regista abbia preteso con la forza una qualsiasi prestazione. La reazione del ragazzo pertanto resta inspiegabile e il delitto è compiuto in circostanze non chiare e per motivazioni difficili da comprendere. La sentenza di Appello parla di “impossibilità di identificare la causale del reato”. Sappiamo solo che Pelosi ha ucciso ma non ne conosciamo il motivo e per questo nel corso degli anni l’ipotesi dell’agguato si è affacciata di nuovo come possibile spiegazione. Resta tutto avvolto nel magico alone del dubbio e della congettura perché anche la motivazione dell’agguato non è chiara. Può essere stata un’imboscata politica come una semplice missione punitiva da parte di giovani neo fascisti nei confronti di un “frocio” importante. In sede di processo la difesa degli avvocati di Pelosi si basa sulla minore età dell’imputato e sulla provocazione attuata dal poeta, noto omosessuale. Il Tribunale emette sentenza di condanna per Pino Pelosi a nove anni e sette mesi, confermata in Appello e in Cassazione, poiché le due istanze superiori evidenziano che una complicità di terzi nel delitto appare “improbabile”, malgrado la scrupolosa e attendibile perizia del professor Cancrini.

Alberto Moravia, scrittore molto amico di Pasolini, ha una sua idea in proposito: “I motivi dell’aggressione possono essere molti e non li conosciamo. Ma la morte di Pasolini nella realtà psicologica che è la sola che conta, è stata certamente provocata dall’odio dell’assassino verso se stesso e dalla sua identificazione con Pasolini nel momento del delitto. Uccidendo Pasolini, l’assassino ha voluto punirsi; l’omicidio è stato, dunque, una sorta di dissociato e oggettivo suicidio”. L’idea di Moravia è quella del suicidio per delega, compiuto da Pelosi su Pasolini, ma resta da capire cosa abbia scatenato il raptus di Pino “la rana”. Torna la storia del paletto, la richiesta non contemplata nell’accordo economico che il ragazzo non avrebbe accettato e a noi resta il dubbio del motivo di una simile provocazione che può essere ascritta a una tragica fatalità, come a un’urgenza di sangue e a una delega suicida spinta al massimo (4).

Rossana Rossanda scrive: “Se Pasolini fosse uscito vivo da quell’orribile notte sarebbe stato dalla parte del diciassettenne che lo ammazzava di botte. Maledicendolo, ma con lui. E così fino all’inevitabile, forse prevista e temuta, altra occasione di morte” (5).

Vero è che Pasolini vive la sua vita con un coraggio estremo che lo porta a rischiare giorno dopo giorno sulla sua pelle una serie di esperienze fondamentali e irrinunciabili.

Al punto in cui siamo è difficile scoprire la verità sulla morte di Pasolini e soprattutto comprenderne i motivi di fondo, sappiamo solo che questa morte è reale ed è questa la sola cosa importante. I nostri migliori cantautori hanno scritto canzoni su questo tragico evento e le note più belle e struggenti sono quelle di Una storia sbagliata del grande Fabrizio De André e di A Pa’ di Francesco De Gregori.

Molti registi si sono dati da fare per ricostruire il delitto e l’ultimo interessante lavoro è Nerolio – Sputerò su mio padre di Alberto Grimaldi (1996), un film che racconta l’omosessualità di Pasolini attraverso le sue notti selvagge. Marco Cavicchioli è il, protagonista nei panni del poeta che appare subito una caratterizzazione di Pasolini anche se non se ne fa mai il nome. Nerolio ha scandalizzato l’Italia cinematografica ed è stato rifiutato dalla Mostra del cinema di Venezia, trasformandosi purtroppo in un film fantasma, visto solo dai frequentatori dei festival e mai approdato nelle sale. Nel 1998 pochi cinema italiani lo hanno programmato ma il preannunciato scandalo ha fatto paura alla grande distribuzione. Ciò che non è piaciuto di Nerolio (ma è la sua vera forza) è proprio la rappresentazione crudamente realistica della vita più segreta dello scrittore. Grimaldi sostiene la tesi di una morte, se non cercata, almeno messa in conto in una ricerca drenata di incontri notturni. Laura Betti, l’attrice che dirige la Fondazione Pasolini, ha ribadito che Nerolio “non andava fatto”.  Per Gianluigi Rondi Nerolio è un pessimo film da dimenticare che “essendo rimasto in magazzino ben due anni dopo la sua realizzazione, poteva anche restarci. Non se ne sarebbe sentita la mancanza” (6). Lietta Tornabuoni invece sostiene che il film, girato con pochi mezzi e realizzato in bianco e nero in sedici giorni, accolto malissimo dagli amici ed eredi di Pasolini, è intenso, a volte emozionante, ma non bello”. Il film resta importante come testimonianza perché “restituisce a Pasolini una verità differente dalle normalizzazioni e santificazioni intervenute dopo la morte, corregge l’ansiosa rimozione di sesso e carattere, restituisce alla cultura un personaggio d’artista più aspro ma forse più autentico” (7).

Nel 1995 è uscito Pasolini, un delitto italiano di Marco Tullio Giordana, che lo sceneggia insieme a Sandro Petraglia e Stefano Rulli su soggetto ispirato al libro di Enzo Siciliano. Carlo De Filippo è Pino Pelosi, Victor Cavallo fa Antonio Pelosi e Claudio Amendola è Tre Palle. Pasolini invece non si vede mai. Il film ipotizza un criminale intervento di estremisti violenti e sulla eventualità di mandanti politici, poiché Pasolini si era fatto molti nemici e poteva essere diventato un individuo scomodo. In realtà nei suoi scritti più recenti aveva affermato che, pur non essendo in possesso di prove, “sapeva molte cose” nel campo della politica e del Potere. Lietta Tornabuoni su La Stampa definisce il film come “un lavoro tragico, sobrio, commovente e incalzante che racconta la morte, le pessime indagini e il primo processo a Pelosi. Pasolini appare soltanto nelle immagini del massacro, in fotografie o materiali televisivi d’epoca, nella lettura dei suoi versi o dei suoi articoli che processavano e condannavano con oltre vent’anni di anticipo quella leadership partitico-governativa italiana ora politicamente disfatta e giudiziariamente sotto inchiesta: giusta soluzione, il far interpretare Pasolini da un attore sarebbe stato insopportabile. La ricostruzione dei fatti é affidata a un mix sapiente di messa in scena e documenti cinetelevisivi del 1975, di bianconero e colore, di personaggi reali e di attori molto bravi: Massimo De Francovich e Toni Bertorelli sono eccellenti nelle parti del perito professor Durante e d’un poliziotto che vorrebbe fare il suo mestiere d’investigatore e ne viene impedito” (8). Il film si guadagna un David di Donatello 1996 per il miglior montaggio a Cecilia Zanuso.

Pino Pelosi, dopo aver scontato la breve condanna, nel 1995 ha scritto pure un inutile libro sul delitto Pasolini dove racconta la sua verità, una storia che ormai conosciamo e che il ragazzo ha ripetuto all’infinito durante gli interrogatori e nelle aule dei tribunali. Il libro si intitola Io angelo nero e Giovanni Dall’Orto lo recensisce in questi termini: “La vita è fatta di occasioni mancate, ma per qualcuno lo è più che per altri. In questo caso l’occasione mancata è bella grossa, trattandosi dell’autobiografia dell’assassino di Pier Paolo Pasolini che finalmente avrebbe avuto modo e mezzo per dire la sua. Troppe volte abbiamo sospettato che il suo torto maggiore fosse stato uccidere un personaggio troppo famoso, pagando per un biasimo derivato non dall’atto in sé ma dalla fama della vittima. Ebbene, chi sperava che questo libro servisse a fornire un punto di vista diverso sulla vicenda, avrà una delusione. Perché, per dirla tutta in una frase, Giuseppe Pelosi detto Pino nun ha ffatto gnente…. o quasi. Lui era un ragazzo vivace, certo, un po’ con l’argento vivo addosso, ecco, ma era tanto bbono, signo’… Ovviamente lui non faceva assolutissimamente marchette, ed è stato solo indotto da Pasolini a provare a farlo, ma giusto per curiosità… Pasolini lui non lo voleva uccidere… anzi manco s’è accorto di averlo fatto. Lui si è solo difeso da una selvaggia aggressione d’un sadico, e basta. Eccetera: già fatto, già visto, già sentito: nulla di nuovo” (9).

Pino Pelosi nel 1995 ha quasi quarant’anni, ma si comporta da bambino come a diciassette scrivendo un libro che non rivela niente di nuovo al di là delle solite scuse banali e poco convincenti. Pelosi e il suo editore tentano di speculare sull’unico evento “importante” della vita del ragazzo, sul fatto di aver ucciso un famoso intellettuale omosessuale. Il libro delude proprio perché rappresenta solo una difesa a oltranza di un uomo che confessa di aver ucciso Pasolini in un raptus di violenza ma che non avrebbe mai voluto farlo. C’è pure il sospetto che questo libro sia stato riscritto da più mani per renderlo leggibile, di sicuro il prefatore Gaetano De Leo lo ha revisionato e probabilmente anche Dacia Maraini ha messo qualcosa di suo. Forse sarebbe stato più vero e genuino un documento scritto in toto dal suo autore, con tutte le sgrammaticature del caso.

Completa l’opera un’ottima riflessione di Dacia Maraini intitolata “Pino Pelosi scrittore”. Dopo l’uscita di Petrolio, il masochismodi Pasolini non è più un segreto per nessuno, e la Maraini ipotizza che quella notte Pasolini possa effettivamente aver provocato Pelosi, sfottendolo, per farsi picchiare. Dacia Maraini afferma: “Se Pasolini avesse voluto architettare una vendetta postuma non avrebbe potuto inventare niente di più inquietante e romanzesco: il suo assassino, da ragazzo indifferente, svogliato, semianalfabeta, violento, bugiardo, apatico ed egoista, si è trasformato, attraverso la famigliarità col fantasma della sua vittima, come lui stesso racconta, in un giovane uomo inquieto, pensoso, capace di soffrire e quindi anche di capire ciò che prima gli era estraneo, voglioso di apprendere e perfino di scrivere. L’assassino Pino Pelosi è diventato, per osmosi col ricordo assillante del mite poeta Pasolini, anche lui scrittore e poeta” (10).

La considerazione sul masochismo di Pasolini è quella che più interessa: “Pelosi dice che Pasolini era conosciuto per il suo masochismo. Anche noi amici lo sapevamo. Pasolini non avrebbe mai fatto del male a nessuno, mai avrebbe minacciato e violentato. Lui semmai cercava qualcuno che, in un gioco erotico, lo malmenasse un poco. Era questo il suo segreto. Di solito i ragazzi a cui si accompagnava sapevano che era un gioco e stavano alle regole di quel gioco. Ma Pino Pelosi ha un carattere poco giocoso, non conosce l’intuizione, è privo di pazienza, non sa cos’è la tolleranza e ha uno scarso senso delle proporzioni. Lui, di fronte a una schermaglia amorosa, che del resto aveva accettato per denaro, si è sentito ferito nella sua idea di virilità e ha reagito nel suo modo cieco e furioso. E non dica che non si è accorto di averlo messo sotto le ruote della macchina il corpo di Pasolini. Se ha avuto tanta prontezza da guidare la macchina in piena notte, dobbiamo pensare che avesse anche la sensibilità per accorgersi che gli stava montando sopra. D’altronde un corpo umano non è un tappeto. Escludo, conoscendolo, che Pasolini lo abbia minacciato o abbia voluto penetrarlo con un bastone. È probabile invece che abbia riso su quel falso pudore del ragazzo per provocare in lui una reazione e suscitare quella lotta giocosa che era la sua preferita. Proprio per farsi picchiare, come scrive con molta sincerità nel suo ultimo romanzo, Petrolio. Non certo per farsi ammazzare” (11).

Oriana Fallaci, nel volume Omicidio nella persona di Pasolini Pier Paolo edito nel 1992 da Kaos, fornisce una sua interessante versione basata sulle testimonianze di alcuni abitanti delle baracche che sorgono intorno allo spiazzato dove Pier Paolo Pasolini viene ucciso. Pare che un romano che si trova in una di quelle baracche per un convegno amoroso con una donna che non è sua moglie sia spettatore del delitto. Pasolini non viene aggredito e ucciso soltanto da Giuseppe Pelosi, ma anche da altri due teppisti molto conosciuti nel mondo della droga. I due teppisti arrivano a bordo di una motocicletta dopo mezzanotte, ed entrano insieme a Pasolini e al Pelosi in una baracca che lo scrittore affittava per centomila lire ogni volta che vi si recava. A un certo punto cominciano le urla di una lite violenta e sono i tre ragazzi a gridare: “Porco, brutto porco!”. Subito dopo la porta della baracca si spalanca e Pasolini corre verso la sua automobile, la raggiunge e sta per salire quando i giovanotti lo agguantano e lo tirano fuori. Pasolini si divincola e fugge di nuovo, ma i tre gli sono ancora addosso e continuano a colpirlo. Stavolta con le tavolette di legno e anche con le catene. Ciascuno di loro ha in mano una tavoletta e i due teppisti più grossi hanno pure le catene. Il testimone che, terrorizzato, si rifiuta di raccontare la storia alla polizia, dice anche che, a un certo punto, vede i tre giovanotti in faccia. Sono le una del mattino e le urla dell’alterco continuano, udite da tutti, per quasi mezz’ora. Pasolini cerca di difendersi ma poi si abbatte esanime ed è a questo punto che i due ragazzi corrono verso la sua automobile, vi salgono sopra, e passano per due volte sopra il corpo dello scrittore, mentre Giuseppe Pelosi resta a guardare. Poi i due scendono dall’automobile, salgono sulla motocicletta e se ne vanno, mentre Giuseppe Pelosi grida: “Mo’ me lasciate solo, mo’ me lasciate qui!”. Pelosi grida per un po’ e infine decide di prendere l’automobile di Pasolini e di scappare con quel mezzo. Questa versione risolve i dubbi che tutti hanno avanzato fino a oggi sulla possibilità che un uomo robusto e sportivo come Pasolini potesse essere sopraffatto da una persona sola, anzi da un ragazzo di diciassette anni, meno forte di lui. L’articolo di Oriana Fallaci conclude con gli interrogativi di sempre e non spiega i motivi del silenzio di Pino Pelosi che si è sempre assunto ogni responsabilità (12). L’unica cosa certa è che nella follia di una notte scellerata siamo rimasti orfani di una lucida intelligenza che con trent’anni di anticipo aveva previsto tutti i mali della società contemporanea. “L’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli inconsciamente ha ricevuto, e a cui deve obbedire, a patto di sentirsi diverso. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L’uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una falsa uguaglianza ricevuta in regalo” (13). Scrive Pasolini in una delle sue famose e polemiche Lettere Luterane. Oggi che consumismo e globalizzazione sono una realtà con cui fare i conti è utile andarsi a rileggere gli Scritti Corsari e le Lettere Luterane. Possono servire a capire quanto fosse scomoda una figura di intellettuale come Pier Paolo Pasolini nell’Italia corrotta e insicura dei primi anni Settanta.

Sabato 7 maggio 2005, a trent’anni di distanza dal delitto, Pino Pelosi si fa di nuovo vivo in televisione e riapre il caso Pasolini con una confessione scioccante. “Non ho ucciso Pasolini”, dice a Franca Leosini che lo intervista su Rai Tre per il programma Le ombre del giallo. Pelosi accusa tre uomini che parlavano un accento del sud che avrebbero apostrofato il regista con offese in siciliano come “arruso” e “fetuso” e in ultimo gli avrebbero dato anche dello “sporco comunista”. Pelosi descrive un vero e proprio agguato che aveva per obiettivo il Pasolini intellettuale scomodo al potere. Pelosi non cambia una virgola sull’incontro e il tentativo di approccio sessuale, così come spiega allo stesso modo la sua fuga e l’auto che travolge “per errore” il corpo del regista. Toglie invece la lite, la tentata violenza carnale con un bastone, Pelosi che si ribella e che uccide colto da un raptus violento. Al suo posto spuntano fuori questi tre fantomatici individui  che Pelosi ha sempre coperto per paura che ne subisse le conseguenze la sua famiglia. “Adesso mia madre e mio padre sono morti, la mia vita non mi interessa, non ho lavoro, ho fatto ventidue anni di galera (tredici anni per altri reati dopo il caso Pasolini nda), posso anche parlare”. I tre uomini escono dal buio, tirano fuori dall’auto Pasolini, uno di loro immobilizza Pelosi e gli altri due cominciano a pestare duro con spranghe di ferro e bastoni. Nello studio televisivo erano presenti anche gli avvocati Nino Marazzita e Guido Calvi, al tempo difensori della famiglia di Pasolini, che restano di stucco ascoltando la confessione tardiva di Pino Pelosi. In pratica si sono visti riconoscere un’inutile ragione quando trent’anni prima avevano sostenuto l’impossibilità per Pelosi di aver fatto tutto da solo.  La tesi dell’agguato prende di nuovo campo, pure se anche secondo noi è sempre stata la più accreditata ed era difficile credere che tutto fosse limitato a un delitto consumato nel mondo degli omosessuali. Resta da capire adesso se Pino Pelosi ha detto il vero o se si tratta di una sua ennesima menzogna e soprattutto andrebbe capito il suo vero ruolo nell’attentato. Molti in passato hanno sostenuto che Pelosi fosse l’esca consapevole per attirare Pasolini in un terribile agguato.

“Non l’ho ammazzato io, erano in tre. Ma potevano essere anche in cinque. Non lo so. Anch’io sono stato picchiato” sostiene Pelosi (14).

In seguito a questa confessione di Pino “la rana”, lunedì 9 maggio parla l’amico regista Sergio Citti che torna a dire le cose che ha sempre sostenuto ai tempi del processo Pasolini. “Pelosi era con altre quattro persone. Pier Paolo fu giustiziato. Quella sera doveva incontrare chi aveva rubato le pellicole di Salò” afferma. Citti indica in un non meglio identificato Sergio P. il ricattatore arrestato vent’anni fa per droga e adesso in libertà. Sulla scorta di questi nuovi elementi l’avvocato Nino Marazzita ha presentato in procura una memoria di cinque pagine per chiedere la riapertura del processo. Secondo lui si arrivò troppo presto a una sentenza di condanna del solo Pelosi, forse temendo che dietro l’attentato vi fossero gruppi neofascisti mossi da importanti uomini politici. “Adesso che i tempi sono cambiati si può fare piena luce”, sostiene l’avvocato (15).

Pino Pelosi dopo l’intervista afferma che vuole trovare un lavoro onesto e rientrare nell’anonimato. Sergio Citti invece chiede di essere ascoltato dal giudice e di essere ammesso a sostenere un faccia a faccia con Pelosi. Per Citti dietro al delitto Pasolini c’è la storia del ricatto di due miliardi di lire per riavere la pellicola di Salò o le centoventi giornate di Sodoma. Uno dei ricattatori sarebbe Sergio P., trentacinque anni all’epoca dei fatti, gestore di un traffico di prostitute, nome noto nel mondo dello spaccio della droga. Nel 1986 venne arrestato insieme a Fred Robshan (marito dell’attrice Agostina Belli) per possesso di tre tonnellate di hascisc e recentemente ha collezionato altre denunce per droga.

A distanza di trent’anni è difficile stabilire la verità sulla morte di Pasolini. Lo spettacolo televisivo con l’intervista a Pelosi, gli avvocati e le foto del corpo massacrato del regista sono state – come ha detto Enzo Siciliano – “solo un penoso reality show”. Nico Naldini, cugino di primo grado di Pasolini e scrittore che spesso ha parlato del delitto, sconfessa Citti e dice che “la storia delle pizze rubate e del ricatto è soltanto una bufala”. Secondo lui il film venne ritrovato ed era assieme ad altri lavori di Federico Fellini, ma in ogni caso sostiene che “i film di Pasolini non costavano molto e le scene mancanti le avrebbe potute girare di nuovo”. Nico Naldini conferma la vecchia e cinica versione di Giulio Andreotti secondo cui “Pasolini se l’è proprio cercata” e l’unico responsabile dell’omicidio resta Pino Pelosi che il poeta ha sottovalutato nella potenzialità della sua reazione rabbiosa. La procura in ogni caso ha riaperto il fascicolo e da oggi in poi verranno raccolte in una cartellina le nuove acquisizioni sul delitto Pasolini. Non ci sono ipotesi di reato ma solo “atti relativi al fatto” (16). Le ultime dichiarazioni di Sergio Citti parlano addirittura di un omicidio compiuto sulla Tiburtina con successivo trasporto del cadavere all’Idroscalo di Ostia. Per Citti il regista è stato ucciso da chi “aveva paura della sua mente, del suo spirito e della sua capacità di essere libero”. Ci sarebbero stati esecutori e mandanti e il ruolo di Pelosi sarebbe stato solo quello del capro espiatorio, un ragazzino ricattabile. “Lo hanno usato. Pelosi è dovuto stare al gioco di quella gente rispettabile che aveva commissionato l’omicidio” dice Citti. L’unica cosa certa è che la verità non la sapremo mai.

Note

(1) Enzo Siciliano  – Vita di Pasolini – Rizzoli – Milano, 1978

(2) Opera citata sopra

(3) Franco Rossi – “Lettera anonima sul delitto Pasolini” – da “Paese Sera” del 3 maggio 1976

(4) Alberto Moravia “Come in una violenta sequenza di Accattone” da “Corriere della Sera” del 4 novembre 1975 ma contra si veda anche Alberto Arbasino “Troppe coincidenze nella morte di Pasolini” – Corriere della Sera del 5 novembre 1975

(5) Rossana Rossanda “In morte di Pasolini” – da “Il Manifesto” del 4 novembre 1975

(6) Gianluigi Rondi – “Recensione a Nerolio” – da “Il Tempo” del 21 ottobre 1998

(7) Lietta Tornabuoini – “Recensione a Nerolio” – da “L’Espresso” del 29 ottobre 1998

(8) Lietta Tornabuoni – “Recensione a Pasolini un delitto italiano” – da “La Stampa” del 20 maggio 1995

(9) Giovanni Dell’Orto – “Recensione a Io angelo nero di Pino Pelosi” – dal sito www.gay.it

(10) Dacia Maraini – “Pino Pelosi scrittore” – postfazione a Io angelo nero

(11) Ibidem, opera citata sopra

(12) Oriana Fallaci – brano tratto dal volume di autori Vari “Omicidio nella persona di Pasolini Pier Paolo” – Kaos Edizioni – Milano, 1992

(13) Pier Paolo Pasolini – Lettere luterane – Einaudi – Torino, 1977

(14) Trasmissione “Le ombre del giallo”  condotta da Franca Leosini – “Il caso Pasolini” – Rai Tre – 7 maggio 2005.

(15) Giovanni Maria Bellu “Pelosi: Non ho ucciso Pasolini – da “La Repubblica” del 7 maggio 2005

(16) Lorenzo Salvia “Dossier in Procura: Si riapra il caso Pasolini” –  da “Corriere della Sera” del 9 maggio 2005, ma si vedano anche: Dino Martirano “Aveva ragione Andreotti. Pier Paolo se l’è cercata” da “Corriere della Sera” del 9 maggio 2005 e Giovanni Maria Bellu “Pasolini, la procura riapre il caso” e “Trent’anni di occasioni perdute” – da “La Repubblica” del 10 maggio 2005

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