In Italia, l’intero sistema “acqua” fa…. “acqua” da tutte le parti

Articolo di C. Alessandro Mauceri

Nel Nord Italia si parla di “emergenza” idrica, fiumi in secca e siccità. Oltre oceano, da giorni, in buona parte del Kentucky vige lo stato di emergenza a causa delle violente inondazioni. Almeno 35 i morti accertati (di cui molti bambini). “Il bilancio delle perdite è provvisorio. In questo momento facciamo fatica anche a raggiungere i luoghi più colpiti. Tra le vittime ci sono anche dei bambini. Abbiamo perso le tracce di intere famiglie” ha dichiarato il governatore Andy Beshear. Dal canto suo il presidente Joe Biden ha dichiarato lo “stato di calamità naturale” in 13 contee del Kentucky. E ha promesso di inviare una prima tranche di aiuti alle autorità locali. Fondi che non basteranno a risolvere il problema: le autostrade nell’area est del Kentucky si sono trasformate in torrenti. Nelle cittadine sono rimaste senza corrente almeno 23 mila utenze.

Due casi solo apparentemente lontani e diversi tra loro, sebbene legati all’acqua. Entrambi non sono “emergenze” ma la conseguenza di una cattiva gestione delle risorse idriche. L’ennesima dimostrazione dell’incapacità di due tra i paesi più sviluppati e industrializzati del pianeta di fronteggiare fenomeni prevedibili ed evitabili.

Negli USA, secondo il National Inventory of Dams (NID), ci sono 91.457 dighe. Di queste sono vecchie, obsolete e la manutenzione è stata per decenni rinviata. Delle dighe americane 15.621 presenterebbero un potenziale ad alto rischio (circa il 17% del totale). Ben 1.688 dighe sono attualmente classificate in condizioni povere/insoddisfacenti e in cui un cedimento della diga causerebbe la morte umana. Il Corpo degli ingegneri dell’esercito degli Stati Uniti ha una propria classificazione per indicare la pericolosità delle dighe: la Dam Safety Action Classification (DSAC), basata su cinque livelli (da DSAC1 per “altissima urgenza” a DSAC5 che è normale). Dati inspiegabilmente segretati. Ciò nonostante alcuni sono emersi: ad esempio, la diga di Whittier Narrows nella contea di Los Angeles sarebbe tra le più pericolose. Nonostante questa situazione, a metà strada tra il ridicolo e lo scandaloso, solo poche dighe sono sottoposte ai controlli: delle 738 dighe monitorate dal Corpo del Genio dell’Esercito, solo poche vengono ispezionate ogni anno. E ancora meno sono stati gli interventi. La relazione 2020 dell’agenzia parla di solo 67 ispezioni di sicurezza effettuate durante l’anno. E di queste circa il 13% avrebbe fatto registrare un DSAC che comprende seri rischi. Nove sono state classificate DSAC2, con rischio urgente perché le probabilità di guasto durante le normali operazioni o a causa di forti piogge è “troppo alte per garantire la sicurezza pubblica”.

Anche le dighe italiane sono “vecchie”. Il 60% delle grandi dighe ha oltre 60 anni, il 90% è stato costruito prima dell’entrata in vigore delle vigenti norme tecniche, che risalgono al 1982, e molte sono state progettate senza considerare gli eventi sismici (all’epoca non era previsto dalla legge). Per i bacini più piccoli la situazione è ancora peggiore: mancherebbe addirittura un censimento dettagliato dei circa 12mila bacini presenti sul territorio nazionale, molti dei quali gestiti dalle Regioni.

Subito dopo il crollo del ponte Morandi a Genova, nell’agosto 2018, l’allora ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, promise che “a stretto giro” sarebbe stata inviata “a tutti gli enti e soggetti gestori di strade, autostrade e dighe una comunicazione formale in cui si chiede che entro il primo settembre 2018 vengano segnalati al ministero tutti gli interventi necessari a rimuovere condizioni di rischio riscontrate sulle infrastrutture”. Ad oggi, secondo i dati del MIT pare che poco sia stato fatto. Secondo alcuni studi, molte delle oltre 500 “grandi dighe” (quelle alte oltre 15 metri o con un invaso superiore a un milione di metri cubi) mostrerebbero un pericoloso deterioramento strutturale. Quelle attive sarebbero meno di 400 (32 sarebbero “in esercizio limitato per motivi tecnici”, 81 “in esercizio sperimentale”, 11 “in costruzione o con lavori di costruzione conclusi ma con invasi sperimentali non avviati” e 27 fuori esercizio “per motivi tecnici”). Le restanti (oltre un centinaio) sarebbero fuori servizio. Con conseguenze facilmente immaginabili sulla riserva idrica teoricamente disponibile ma di fatto inesistente.

“Gli effetti disastrosi dei cambiamenti climatici sono sotto gli occhi di tutti” ha dichiarato la senatrice Marinella Pacifico, Componente Esteri e Segretaria del Comitato parlamentare Schengen, Europol ed Immigrazione. “Dopo un’estate caratterizzata dalla peggiore siccità degli ultimi quarant’anni, in autunno, potremmo attenderci piogge incontrollate come è spesso avvenuto in altri Paesi. Urge rendere più efficienti e resilienti le dighe e tutte quelle infrastrutture primarie per la fornitura di acqua destinata a usi civili, agricoli, industriali e ambientali prima che si verifichino grandi disastri. Investire nelle infrastrutture idriche ha un impatto non solo sociale, ma anche economico. Una più efficiente e moderna gestione dell’acqua può garantire alla collettività maggiore ricchezza prodotta e riduzione degli sprechi”.

Secondo il professor Rosso, autore del saggio “Bombe d’acqua”, del 2017, le grandi dighe sono un “polmone” importante: “Per il 61% dei casi a scopo idroelettrico, il 26% a uso irriguo e il 12% per l’approvvigionamento idropotabile, anche se l’ultimo dato è sottostimato, in quanto l’opera di presa delle dighe non è sempre censita”.

In Italia, l’intero sistema “acqua” fa…. “acqua” da tutte le parti. Al problema delle dighe si somma quello dei fiumi. “È necessario un intervento strutturale nella gestione delle acque reflue e di messa in sicurezza dei fiumi cittadini. Come segretario del Comitato parlamentare Schengen, ho precedentemente indicato che se lo stato da solo non è in grado di assicurare la dotazione finanziaria necessaria, è possibile avviare partnership pubblico private (PPP) nel settore idrico”, ribadisce la senatrice Pacifico. “La carenza di acqua, così come le alluvioni, esasperate dai cambiamenti climatici e relativi disastri, possono causare tensioni tra persone, comunità e addirittura Paesi. Tensioni che possono esacerbare rapidamente fino alla violenza. Ecco perché è necessario chiedere la collaborazione dei nostri partner internazionali, facendo sì che tutti rispettino gli impegni presi, prima di adottarne di più audaci in materia di cambiamenti climatici”.

Un problema che non è una emergenza: è frutto della cattiva gestione dell’intero sistema per decenni: “L’età media dei più importanti sbarramenti fluviali nel nostro Paese è di quasi 65 anni, e manca un censimento dettagliato di quelli più piccoli, almeno 12mila, sotto l’egida delle Regioni. A tal proposito, per far comprendere quanto sia reale e non astratto il rischio di cui parliamo, vorrei ricordare un tragico evento, una ferita ancora aperta nella coscienza del nostro Paese. A metà luglio del 1985, i bacini di decantazione della miniera di fluorite del monte Prestavel, in Val di Stava, Trentino-Alto Adige, ruppero gli argini e scaricarono 180mila metri cubi di acqua e fango sull’abitato, causando 268 morti. Gli argini in terra erano stati innalzati senza rispettare i fattori di sicurezza previsti dall’ordinamento. Non si trattava di una grande diga, ma del rilevato arginale di un piccolo serbatoio montano a uso industriale. Fu solo dopo quel disastro che ci si accorse che nel territorio italiano esistevano anche le piccole dighe. Partì un censimento dei piccoli invasi artificiali sia tramite telerilevamento sia con ricognizioni sul terreno e il risultato fu di 8.288 “piccoli invasi” e 555 “grandi dighe”. Quasi trentacinque anni dopo, l’Italia si ritrova a fare i conti con lo stesso problema: molte dighe sono vecchie e necessiterebbero di interventi immediati per scongiurare seri pericoli. “Per evitare rimorsi dunque bisogna agire in tempi rapidi per monitorare e migliorare lo stato di salute dei nostri corsi d’acqua, considerando gli invasi non più gestiti o abbandonati dai concessionari, nonché il livello di impermeabilizzazione entro la fascia di tutela dei 150 metri dai corpi idrici. Garantire la sicurezza dei cittadini è un dovere delle istituzioni ed è necessario superare l’aspetto emergenziale preferendo una politica lungimirante che segua e si lasci ispirare dalla natura. Dalla nostra, abbiamo moderni mezzi tecnologici e digitali che risultano essere estremamente utili nel fronteggiare le nuove importanti sfide che riguardano l’umanità. Dobbiamo rimettere la natura e la prevenzione al centro. É necessario pianificare un programma d’intervento su larga scala di tutti i sistemi fluviali, inclusi sbarramenti e dighe, sempre mantenendo immutati il carattere e la percezione dei luoghi, valorizzando e non alterando la complessità ambientale, paesaggistica e storica dei territori, ove possibile migliorando la loro percorribilità e funzionalità”.

La decisione a livello europeo di definire uno strumento per la gestione non solo delle dighe ma di tutti i servizi idrici, i Contratti di Fiume, in alcune regioni d’Italia stenta a decollare. Le soluzioni “classiche”, “quelle adottate fino ad oggi per garantire sia la domanda d’acqua per gli usi umani, sia il mantenimento di buone condizioni ambientali, non sono state in grado di dare i risultati sperati e questo nonostante gli imponenti investimenti e un elevatissimo grado di copertura della rete di depurazione”, si legge sul sito del CIFR il Centro Italiano per la Riqualificazione Fluviale. Come la decisione di realizzare reti fognarie estese e collegare gli scarichi di un comprensorio in un unico depuratore centralizzato: una scelta che avrebbe il vantaggio del contenimento delle spese di gestione e di un’elevata resa depurativa (i depuratori convenzionali funzionano meglio con carichi costanti ed elevati), ma ha fatto sì che a volte in un unico punto del corso d’acqua (con portata ridotta) venisse scaricata una quantità di rifiuti eccessiva e non “smaltibile”.

La cattiva gestione di questi sistemi complessi ha conseguenze ormai note a tutti. In alcune regioni, i grandi bacini sono ai livelli minimi: i laghi di Como e d’Iseo sono vicini al record negativo. Livelli negativi già superati, invece, dal lago Maggiore. In Veneto l’Adige ha un’altezza idrometrica inferiore di 2 metri e mezzo rispetto all’anno passato e di circa 20 centimetri rispetto all’anno peggiore (2017). Stessa cosa in Friuli Venezia Giulia dove serbatoi nei bacini della Livenza e del Tagliamento mantengono valori prossimi od inferiori ai minimi storici del periodo. In Toscana il livello nel bacino di Massaciuccoli cala di 4 millimetri al giorno ed è a soli 2 centimetri dal minimo storico (-13,1). Anche la portata dei fiumi Arno (ad Empoli 7,38 metri cubi al secondo) e Serchio continua a diminuire. E nell’Ombrone scorrono appena malapena 640 litri d’acqua al secondo.

Problemi che hanno origini che non sono “emergenze”. Ma molte volte se ne parla solo quando la situazione degenera. Come è avvenuto negli USA. Anche qui l’età media delle dighe è elevata (57 anni), ma molte (oltre 8.000) hanno più di 90 anni. Secondo alcune stime, per mettere in sicurezza le dighe degli USA  sarebbero necessari circa settanta miliardi di dollari (65,89 miliardi di dollari per le dighe non-federali, quelle gestite dai singoli stati, e 4,78 miliardi di dollari per quelle federali). Un investimento considerevole. Ma ben poca cosa se si pensa a quanto spendono ogni anni gli USA in armi e armamenti. E soprattutto un investimento irrinunciabile per evitare che queste infrastrutture “strategiche” (tanto quanto un missile o un aereo da guerra) per gli Stati Uniti, abbandonate al degrado, possano mettere a rischio non solo l’economia ma anche la vita delle persone. Anche negli USA, sono rimaste inascoltate le denunce lanciate dalle associazioni come l’Association of State Dam Safety Officials (ASDSO), che monitora da anni lo stato di salute delle dighe. Vani anche gli appelli lanciati lo scorso 31 maggio, in occasione del National Dam Safety Awareness Day, la giornata dedicata alla tutela e alla preservazione delle dighe negli Stati Uniti d’America (introdotta il 31 maggio del 1889  dopo  il crollo della South Fork Dam vicino alla città di Johnstown, in Pennsylvania, che causò la morte di 2.200 persone). Chi sperava in azioni concrete ha ricevuto in cambio solo frasi di rito: “Garantire acqua potabile pulita e sicura è un diritto in tutte le comunità”, ha dichiarato il presidente Biden che ha promesso di “investire nella riparazione di condutture idriche e sistemi fognari, nella sostituzione di condutture di servizio, nell’aggiornamento degli impianti di trattamento e nel monitoraggio della qualità dell’acqua”. Ha anche detto che nel suo programma è inclusa “la protezione dei bacini idrografici e degli impianti per l’acqua pulita, sviluppando infrastrutture verdi e soluzioni naturali”. Ma da qui ad agire concretamente la strada è lunga.

Lo stesso è avvenuto in Italia: alle promesse del governo di prendersi cura del sistema dopo il crollo del ponte di Genova non sono seguiti interventi risolutivi. Lo dimostrano le attività riportate sul sito della Direzione generale per le dighe: alla data del 10 gennaio 2022, solo il 3% dei lavori previsti sono stati avviati; per il resto si è ancora alla fase di progettazione (a vari livelli) o per oltre un terzo delle dighe italiane non è stato fatto nulla. Cartografia degli interventi – Direzione generale per le dighe e le infrastrutture idriche (mit.gov.it)

Per i bacini più piccoli la situazione è (se possibile) ancora peggiore: per alcuni non si sa nemmeno chi dovrebbe occuparsi delle opere di manutenzione ordinaria come la rimozione del limo sul fondo (accumulandosi non solo causa cambiamenti idromorfologici degli invasi ma ne riduce sensibilmente la capacità). Ancora una volta non si tratta di interventi straordinari, di risposte a fenomeni eccezionali o emergenziali: si tratta di gestire correttamente quello che già esiste.

La siccità (di cui tutti hanno parlato nelle scorse settimane) e le elevate temperature medie (delle quali non parla più nessuno), sono l’effetto anche di comportamenti antropici sbagliati. Ma i danni che siccità e temperature elevate stanno causando sono indubbiamente legati alla cattiva gestione delle risorse disponibili. Da un lato la mancanza di acqua, dall’altro l’eccesso d’acqua ma senza controllo. La causa è sempre la stessa: la gestione dei bacini. La loro manutenzione costa non poco. Ma i danni che causa non farlo sono molto maggiori. In Italia come all’estero.

Foto: www.lanotiziagiornale.it

Related Articles