L’inizio del mito. Emilio Salgari, il mare tra conoscenza e infinito

Articolo di Filippo Scimé

Che il rapporto tra Emilio Salgari e il mare sia stato di lunga durata, e in un certo modo quasi congenito, parrebbe sostenerlo l’iscrizione a sedici anni d’età all’Istituto Nautico di Venezia, esperienza che rimase priva di seguito alcuno, perché l’autore veronese non terminò mai gli studi, preferendo a gettarsi a capofitto nella scrittura. Abbiamo solo traccia del compimento di un unico viaggio, in qualità di semplice mozzo, a bordo dell’imbarcazione Italia Una, tra Venezia e Brindisi lungo il versante adriatico.

Al di là delle notizie strettamente biografiche, credo che sia stata la predilezione per lo spazio geografico, glauco e infinito, a spingere Salgari verso la produzione dei romanzi di avventura che come abbiamo teorizzato in alcuni articoli (si veda il precedente: https://www.ilsaltodellaquaglia.com/2023/02/18/della-letteratura-pedagogica-o-popolare/)  indirizzava a un nuovo consumo l’Italia postunitaria creandone una prima utenza letteraria capace di fruirne e affiancandosi al gusto editoriale promosso da numerose testate dedicate ai viaggi e alle esplorazioni geografiche, con epicentro Milano che dell’editoria destinata a un vasto pubblico stava diventando la capitale (si pensi del resto alla centralità che hanno avuto interi movimenti letterari come la scapigliatura o l’importanza del luogo quale richiamo culturale per grandi studiosi: Verga, Capuana che proprio a Milano aveva compiuto il travaso del positivismo francese nel verismo).

Prediligere il mare non significa assecondare la corrente dei lettori, vendere sfruttando le dinamiche del consumo, ma tutt’al più alimentare il linguaggio della fantasia cioè creare uno spazio neutro nel quale possono essere mescolati sapientemente ingredienti quali: disparati fenomeni atmosferici, naufragi, ambienti ostili e infidi, fenomenologie piratesche, amicizie, tradimenti, nuove terre e nuove creature; insomma la base del romanzo d’avventura che in fondo riesce a interpretare correttamente la temperie culturale di riferimento. Secondo lo storico francese Fernand Braudel, il vastissimo spazio geografico delimitato dai “confini” del XVIII secolo, può indicativamente  essere caratterizzato da tre aree, collegate fra loro: il «centro» ossia le grandi città dalle quali partivano i grandi bastimenti o verso le quali confluivano le merci più richieste; la «fascia intermedia» che determinava la ricchezza del centro e dipendeva dallo stesso; e infine la «periferia» che si caratterizza per il fatto di fornire un cospicuo numero di materie prime e una popolazione sottomessa dipendente dal centro, sebbene la natura di questa dipendenza sia varia (schiavitù, mezzadria).

Non sarebbe male inquadrare la produzione salgariana secondo tale dinamica, e accantonare quella più semplicistica della lettura d’evasione, dato che ritengo in alcune opere sia stata seguita specificatamente: il ciclo su Capitan Tempesta ne è un esempio interessante; Venezia era infatti il centro di una complessa economia-mondo, vi affluivano un’enorme quantità di prodotti dell’Italia centro-settentrionale e della Germania e dell’Oriente. La zona intermedia è l’area circostante sulla dorsale adriatica, che offre uomini, mezzi e risorse alla città lagunare. La periferia, infine, era rappresentata in primo luogo dalle sue isole nell’Egeo, già caratterizzate dalla monocoltura della canna da zucchero o della vigna, in quanto strettamente asservite agli interessi dei grandi mercanti veneziani, domini, di terre che, a loro volta, che vennero via via perdute dall’avanzare dell’offensiva musulmana. Il mare pertanto è spazio di sogni, di imprese, di avventure, ma anche e prevalentemente uno spazio economico, politico e sociale.

E volendo penso che si possa aggiungere anche l’etichetta di spazio storico: si vedano le pagine che si soffermano a lungo sul fenomeno della filibusteria, prassi che tecnicamente racchiude la cooperazione associativa di corsari e pirati venuti dall’Europa centro occidentale (Francia, Inghilterra e Paesi Bassi), la quale dettava un sistema talassocratico, esautorando il dominio coloniale spagnolo nelle acque del Golfo del Messico o dell’oceano Pacifico pressappoco intorno al XVIII secolo. Non c’è uno scrupolo storico, ma un interesse precipuo nel definire il contesto in quanto tale e non come semplice piscina terrestre.

Il mare però inevitabilmente richiama per compagno un altro importante macro tema: il viaggio. Salgari è stato prima di tutto un viaggiatore, ovviamente nell’animo (sappiamo che si limitò a sondare la superficie delle carte geografiche), perché, potremmo semplificare barbaramente, il viaggio è la misura della conoscenza umana. Come riportato dall’appassionato Maurizio Sartor, curatore del volume “Dalla Liguria alle Antille – Antologia dei Ventimiglia di Emilio Salgari & C” (Canneto ed.), opera interessante realizzata insieme a Davide Barella, un indizio tangibile di questa passione è l’utilizzo di uno pseudonimo che compare nella lista dei meno noti: “Il piccolo viaggiatore”. Aprendo una piccola parentesi la prassi dell’uso eccessivo di soprannomi è sicuramente una traccia interessante per capire in Salgari il rapporto tra scrittura e produzione. Lo studioso salgariano Felice Pozzo ha notato in maniera molto accorta cheaccanto al gran numero di romanzi scritti, non va dimenticata anche una certa “produzione minore”, intendendo con tale terminologia l’insieme delle opere meno note, le quali consisterebbero in un insieme vasto e ramificato di circa 150 (non bisogna dimenticare che è stato proprio un racconto, I selvaggi della Papuasia , a lanciare Salgari nella carriera letteraria) pubblicati presso vari editori, spesso facendo uso di “pseudonimi” per sfuggire ai contratti editoriali in cui era impegnato (Pozzo, 2000).

Ma cosa intende Salgari per viaggio? Il romanziere veronese ci ha lasciato uno degli aforismi che è passato alla storia: scrivere è viaggiare senza la seccatura dei bagagli; pertanto già scrivere è l’inizio del viaggio: corrisponde, semplicemente all’immaginazione di cambiare la fisionomia del presente, proiettando l’agire umano in luoghi descritti con precisione botanica, dove l’umanità non si conosce, al netto delle risorse offerte dal contesto storico della vicenda e da quello nel quale opera l’autore.Per cui la progressiva alfabetizzazione del viaggio, sotto l’egida italiana,non si configurava nell’opportunità di ribadire con forza una prospettiva eurocentrica o conoscere l’alto grado di civilizzazione raggiunto dalla cultura europea; al contrario, voleva dire comprendere l’assenza di differenze all’estreme latitudini del globo: l’agire dell’uomo era il medesimo, anzi spesso, parlare di mondi lontani consentiva di sottolineare le colpe della colonizzazione europea, che ha consentito un’oligarchia di grandi proprietari terrieri in grado di monopolizzare immense estensioni di terra.

La prosa salgariana diventa un tessuto molto raffinato e ci troviamo inevitabilmente di fronte al primo autore della letteratura italiana che ha saputo evidenziare dei connotati essenzialmente geografici della prosa cioè il fatto che l’uomo sia essenzialmente un “fattore geografico” (lezione preziosa soprattutto in questi tempi); l’uomo non è una pedina, decide bensì le sorti dell’ambiente e interviene continuamente e attivamente sul territorio (si parla di spazio antropico per l’appunto) e lo modifica secondo le proprie capacità e i propri interessi economici e dunque i bisogni. Pertanto lo spazio è il mare, la dinamica è il viaggio, il genere l’avventura, l’agire umano interviene modificando questo meraviglioso miscuglio che fiancheggia gli ardenti desideri dell’amore oppure si affratella a quelli delle imprese che gridano vendetta, ristabilendo un ordine valoriale contraddistinto dal bene e dal male.

Il mare e il viaggio sono due coordinate essenziali per comprendere quanto abbiamo brevemente asserito (gli avventurieri dei libri digitali valutino pure l’incidenza dell’uso del primo termine; nei maggiori romanzi, supera sempre il centinaio di occorrenze), e che risente di un continuo setaccio linguistico nel quale le mirabilie dell’abbondanza linguistica sono utili per esprimere l’abbondanza naturale del mondo, il suo legame ancestrale alla terra nella sua primordiale bellezza di natura incontaminata e misteriosa, il cui unico modo di comprenderla è il viaggio fisico, umano, ideale, geografico: Salgari si è limitato a consigliarci di partire.

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