Greenwashing o greenhushing?

Articolo di C. Alessandro Mauceri

Dell’ambiente sembra non importare più a nessuno. Mentre i disastri ambientali sempre più violenti continuano a moltiplicarsi (si pensi a quanto è avvenuto in Libia o in Marocco o in Pakistan), delle emissioni di CO2 sui giornali quasi non si parla. È il risultato sconfortante di anni di politiche negazioniste. E non solo. Iniziato con il cambio di rotta dell’ex presidente USA, Donald Trump, questo modo di fare ha raggiunto il culmine con la decisione di tenere le ultime due COP in Paesi tutt’altro che interessati alla riduzione delle emissioni di CO2. In Egitto, nel 2022, e, nel 2023, negli Emirati Arabi Uniti (uno dei Paesi maggiori produttori di combustibili fossili!).

Intanto molte grandi imprese hanno deciso di rinunciare alle proprie politiche di greenwashing. L’origine di questo termine viene fatta risalire al 2008: indicauna sorta di ambientalismo di facciata e presentarsi “verdi” (da qui il termine greenwashing) anche quando non lo si è. Per anni molte aziende hanno concentrato le proprie campagne di marketing sulle politiche di compensazione delle emissioni di CO2. Multinazionali dei trasporti, del settore agroalimentare e perfino alcune delle maggiori compagnie petrolifere. Oggi, però, nessuno sembra credere più a queste politiche per riduzione delle emissioni di CO2 per salvare l’ambiente. E molte aziende hanno pensato che presentarsi “verdi” era solo uno spreco di tempo (e di denaro). Quindi hanno rinunciato alla propria etichettatura “carbon neutral”. Recentemente, la compagnia petrolifera FTSE 100, uno dei principali sostenitori della compensazione del carbonio, ha annunciato di voler abbandonare i propri investimenti in crediti di carbonio per acquistare compensazioni naturali entro il 2030. Shell accelerates drive for net-zero emissions with customer-first strategy | Shell Global Lo stesso hanno fatto altri gruppi internazionali in vari settori.

Ad accelerare questo processo potrebbero essere stati i risultati di un’inchiesta giornalistica condotta dal Guardian che avrebbe dimostrato come, spesso, le compensazioni di carbonio della foresta pluviale erano inutili. Anche il Carbon Trust, uno dei principali schemi di certificazione ambientale, avrebbe interrotto il suo schema di etichettatura “carbon neutral” basato sulle compensazioni: in una dichiarazione ha riconosciuto che i consumatori potrebbero essere stati inavvertitamente indotti in errore dall’etichetta a causa di compensazioni di scarsa qualità. Revealed: more than 90% of rainforest carbon offsets by biggest certifier are worthless, analysis shows | Carbon offsetting | The Guardian

Unico a continuare a sostenere la validità del mercato volontario del carbonio non regolamentato sarebbe il l’Africa Climate Summit. Lo scorso anno, durante i lavori della COP27, ha lanciato l’African Carbon Markets Initiative, che mira a produrre 300 milioni di crediti di carbonio all’anno entro il 2030, sbloccando così 6 miliardi di dollari di entrate (e molti di più entro il 2050). Il presidente keniota, William Ruto, ha dichiarato che i Paesi africani non hanno ottenuto nulla per l’assorbimento del carbonio che servono il mondo e ha annunciato nuove norme sul mercato del carbonio nel suo Paese. Anche l’inviato per il clima degli Stati Uniti, John Kerry, ha detto che l’Africa e il Sud del mondo trarrebbero beneficio da un mercato del carbonio in crescita. “Questo mercato deve diventare un mercato di miliardi per funzionare efficacemente. A tal fine, dobbiamo garantire l’integrità ambientale di questo mercato. Questo è fondamentale, non solo per proteggere il clima, ma anche per creare un mercato fiorente perché le persone non correranno il rischio di essere coinvolte in un mercato che non ha i giusti standard e linee guida”, ha affermato. A Nairobi, però, gli ambientalisti si sono detti preoccupati per l’aumento delle compensazioni del carbonio. La paura è che, in molti casi, potrebbe trattarsi di tecniche di greenwashing.

Lo scorso anno, una società di consulenza svizzera, la South Pole, ha intervistato i referenti di circa 1.200 aziende che avevano fissato l’obiettivo di azzerare le proprie emissioni nette di gas a effetto serra. Quasi tutte avevano messo a punto (o hanno dichiarato di essere pronte a farlo a breve) percorsi di riduzione in linea con il contenimento del riscaldamento globale entro gli 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali. Ciò che è emerso dall’indagine è che, sorprendentemente, quasi un’azienda su quattro ha dichiarato di non essere interessata a comunicare pubblicamente i propri obiettivi di abbattimento delle emissioni. Un’altra ricerca, condotta da CDP, è andata oltre. Fino a mettere in dubbio la credibilità dei piani di transizione climatica delle aziende. New CDP data shows companies are recognizing the need for climate transition plans but are not moving fast enough amidst incoming mandatory disclosure. – CDP Da un’analisi condotta su 4.100 aziende sulla base di 21 indicatori (tra cui taglio delle emissioni, esposizione ai rischi finanziari legati al clima, coinvolgimento dei fornitori etc.) è emerso che solo 81 di loro, pari all’1,98 per cento del totale, ha dato risposte abbastanza esaustive su tutti i quesiti.

Per questo modo di fare è stato coniato un altro termine: greenhushing. “Abbiamo più che mai bisogno che le aziende che fanno progressi sulla sostenibilità ispirino le altre a iniziare. Questo è impossibile se i progressi avvengono in silenzio”, afferma Renat Heuberger, ceo di South Pole.

Il punto è che se, da un lato, alle grandi imprese impostare le proprie campagne di marketing sulla compensazione delle emissioni di CO2 non è più economicamente conveniente, dall’altro, comprare quote di emissioni permette loro di continuare a lavorare anche quando sono fuori dai limiti imposti dalle direttive nazionali ed internazionali. Ovvero fare greenhushing.

Secondo alcuni la decisione di molte aziende deriverebbe dal fatto che, per le grandi e medie aziende, il danno derivante dall’essere accusate di fare greenwashing, ovvero di voler celare le proprie emissioni mostrandosi verdi, sarebbe maggiore di non dire nulla. Un rischio oggi più concreto di quanto si possa pensare. Esistono testate, come Eco age, che cercano di smascherare i casi più clamorosi. https://www.eco-business.com/news/18-brands-called-out-for-greenwashing-in-2022/  Il rischio di essere costrette a giustificarsi o di avere problemi in termini di reputazione unitamente ai costi per apparire green ha portato molte aziende a non provarci neanche. Anche tenendo conto del fatto che in molte parti del pianeta si sta diffondendo una sorta di scetticismo verde. Concepts and forms of greenwashing: a systematic review | Environmental Sciences Europe | Full Text (springeropen.com)

A contrastare questo fenomeno potrebbe essere la decisione dell’Unione europea che con la Corporate sustainability reporting directive (Csrd), ha previsto che, a partire dal 2026, circa 50mila organizzazioni (comprese le piccole e medie imprese quotate) dovranno raccogliere e pubblicare dati standardizzati in materia di ambiente, società e governance. Una volta rispettati gli obblighi di legge, le imprese saranno libere di decidere quanta visibilità dare al proprio essere verde.

E rendere così il proprio marchio più attraente per i consumatori legati all’ambiente.

L’unica cosa certa è che, tra greenwashing e greenhushing, per i consumatori sarà sempre più difficile comprendere chi è davvero verde e chi invece finge di esserlo. O chi lo fa quel tanto che basta per continuare a produrre senza dover rispettare i limiti di Parigi.

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