Un’intervista al sociologo e saggista Francesco Pira nel giorno del Patrono d’Italia

Articolo di Pietro Salvatore Reina

La sera del 3 ottobre 1226 dopo aver aggiunto gli ultimi versi al suo Cantico delle creature, Francesco d’Assisi, deposto nudo sulla nuda terra, muore.

Il Poverello d’Assisi è la «più grande figura religiosa e spirituale della storia italiana. La sua vita ci permette di comprendere meglio gli uomini e le donne del Medioevo». (Franco Cardini).

Parafrasando la famosa frase del biografo Tommaso da Celano, Francesco è un «uomo fatto preghiera», possiamo affermare come l’«infinitamente piccolo» Francesco non era solo un uomo che comunicava non solo con gli uomini, ma con tutte le creature (alberi, animali), un uomo fatto comunicazione, un essere «tutto lingua».

Aristotele insegna che la biografia dell’Uomo è la biografia della parola: l’uomo dotato di parola, zoon logon echon, è elemento essenziale alla creazione di uno spazio d’intelligenza collettivo, senza il quale la comunità vivrebbe in modo gregario e non egualitario.

Con il saggista e scrittore Francesco Pira, Professore Associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, Delegato del Rettore alla Comunicazione e Direttore del Master in Esperto della Comunicazione Digitale dell’Università di Messina, vogliamo affrontare il tema della bellezza della comunicazione alla luce del messaggio e della testimonianza credibile di San Francesco d’Assisi.

D.: La comunicazione è un bisogno primario per tutti gli esseri viventi, in particolare per noi esseri umani. Oggi, purtroppo, nella sua velocità sta perdendo accuratezza. La parola, segno distintivo dell’uomo, oggi ci appare ridotta a chiacchiera, è barattata a 280 caratteri su Twitter. In questa difficile e «liquida» società, costruttori di una quotidiana Babele, siamo sempre più consapevoli di restituire valore e potere alle parole?

R.: Chiamarsi Francesco credo che sia un segno chiaro che occorre assumersi le proprie responsabilità. Anche questa è una comunicazione precisa. Papa Bergoglio, non a caso, ha scelto il nome del grande santo. Per eguagliare l’umiltà e la forza del Santo di Assisi. Consentimi di replicare che ho una grande paura del contrario: non diamo peso alle parole, né riconosciamo alle parole stesse il vero valore. Anzi le sostituiamo con immagini ed emoticon e spesso le priviamo del giusto significato. La comunicazione più è veloce e più rischia di creare divisioni e incomprensioni. Questo accade. Gli italiani trascorrono il loro tempo in rete grazie ai loro smartphone e leggono buona parte delle notizie sui social network. Uno dei rapporti del Censis dimostra come la rapidità d’accesso, la flessibilità nell’impiego dei mezzi, la connessione alle reti globali, l’abbattimento delle barriere di spazio e tempo, la personalizzazione dei palinsesti sono entrati nella vita quotidiana della maggior parte degli italiani. I media hanno favorito la comunicazione ma hanno anche acuito i fenomeni di disintermediazione e delle fake news. I social network nascono per tentare di far comunicare e interagire le persone, ma a preoccupare sono le notizie false che circolano velocemente.

Il giornalismo attraversa oggi una profonda crisi resa più evidente dalla presenza dei social network, indebolendo ulteriormente il ruolo di mediazione e contribuendo alla proliferazione di processi distorsivi di rappresentazione della realtà. La formazione di reti sociali sul web, che si alimentano e trovano una loro dimensione all’interno di contesti di mobilitazione, rappresenta uno di quegli elementi che stanno contribuendo a minare la relazione tra media e opinione pubblica, così come sta avvenendo per la politica e le istituzioni nel loro complesso. A parlare di informazione distorta ci ha pensato anche Papa Francesco che ha invocato in diverse occasioni un’informazione corretta e precisa e ha dichiarato: «Se noi prendiamo i mezzi di comunicazione di oggi – ha detto Bergoglio – manca pulizia, manca onestà, manca completezza. La disinformazione è all’ordine del giorno: si dice una cosa ma se ne nascondono tante altre». La comunicazione deve essere lontana dalle falsità ed essere diretta all’animo della gente e quest’anno, durante la 57ma Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali, papa Francesco ha lanciato un messaggio importantissimo: «Nel drammatico contesto di conflitto globale che stiamo vivendo è urgente affermare una comunicazione non ostile. Abbiamo bisogno di comunicatori coinvolti nel favorire un disarmo integrale e impegnati a smontare la psicosi bellica che si annida nei nostri cuori». Un momento storico difficilissimo in cui è necessario «parlare con il cuore» e dialogare «da cuore a cuore».

D.: Domani, 4 ottobre, papa Francesco pubblicherà una seconda «Laudato si’». Tema centrale di questa esortazione è / sarà l’ecologia integrale: trasformare i nostri cuori, i nostri stili di vita e le politiche pubbliche nella consapevolezza di non considerare più il creato come oggetto da sfruttare, ma realtà da custodire come dono sacro del Creatore. San Francesco nel creato scorgeva e cantava l’«impronta» di Dio. Perché non siamo più attenti e credibili nell’avere cura della casa che è il mondo? Dal Secondo Dopoguerra assistiamo sempre più alla degradazione dell’ambiente naturale. La rottura degli equilibri naturali si riflette, ha delle ripercussioni sulla vita dell’uomo. Il malessere esistenziale e quello ambientale sono due aspetti correlati e contigui dei quali è possibile rintracciare una matrice comune. Come riuscire a trasformare tutto questo e a perseguire la via di una ecologia integrale quale via della bellezza e della giustizia?

C’è una strada in salita ma concreta: quella di un nuovo umanesimo che passa dall’educazione alla responsabilità e al rispetto dell’altro. E questo rispecchia il pensiero di san Francesco e il pensiero recente di papa Francesco. Due grandi uomini della Chiesa che in momenti diversi hanno saputo consegnare alla storia delle tracce da seguire per un oggi diverso e per un domani migliore. Bellezza, giustizia e aggiungerei etica, sembrano più vicine alle utopie che alla realtà quotidiana. Eppure, basta poco. Ma siamo tutti pronti a inseguire profitti, vantaggi, comodità. Poco propensi al sacrificio, alla sfida, alla solidarietà, alla crescita delle nostre comunità. E in questo la nuova e vecchia comunicazione non riesce a darci le rispose che ci aspettiamo perché tutto ricalca i bisogni dell’uomo di prevaricare, di imporre di manifestare il potere finalizzato più ad una crescita personale che collettiva. Internet e i social possono essere, ad esempio, una risorsa, ma le ricerche mostrano la contrapposizione tra opportunità e rischio, tra educazione, fragilizzazione della morale individuale ed il prevalere di un ambiente relazionale concepito come un cerchio chiuso che lascia fuori coloro che non la pensano come noi. Appare come conseguenza di quel processo di frammentazione del racconto che è anche frammentazione del nostro vivere. Allora, dobbiamo ascoltare la voce di Papa Francesco e realizzare il suo sogno: «una comunicazione che metta al centro la relazione con il prossimo» e dia spazio ad una «cultura di pace», supportata da «parole giuste per costruire una civiltà migliore». Ed era quello che voleva san Francesco. Con il suo pensiero universale e applicabile in ogni epoca.

D.: Uno dei momenti simbolo della comunicazione di Francesco è il colloquio con il Sultano d’Egitto Malik al Kamil, avvenuto a Damietta, a pochi chilometri di distanza da Il Cairo. Si racconta che prima di questo evento vi fosse stata un’altra missione fatta dai suoi fratelli in Marocco: essi non fecero altro che proclamare la grandezza della loro religione cristiana, sminuendo l’Islam e il suo Profeta, finendo con l’essere arrestati e torturati. L’incontro a Damietta fu invece un incontro segnato da un profondo significato storico e religioso caratterizzato dalla comunicazione. A Damietta, il Vangelo si incontrò con il Corano e il Corano con il Vangelo. Francesco non ebbe paura di Maometto e il Sultano non ebbe paura di Cristo. Come, sette secoli dopo, l’incontro-simbolo di Damietta può dare valore alle nostre differenze?

Papa Francesco ha la grande capacità di muovere le pedine giuste anche quando la partita a scacchi è molto complessa. E anche a Damietta, nel 2019, non ha esitato, con umiltà e perseveranza, nel segno di san Francesco, a scandire con intensità il suo messaggio avvolgente, mai lontano dalla fratellanza. La globalizzazione ha dato vita a questa società liquida nella quale i punti di riferimento naturali sono perduti, assistiamo allo svilupparsi di una società fortemente individualista e, l’esplosione stessa di nuovi modelli relazionali come quelli che si stanno creando all’interno dei social network, ne è un esempio. Ma queste relazioni che nascono in un ambiente apparentemente senza confini e tendono a realizzarsi tra simili, che contributo possono fornire alla costruzione di una relazione con l’altro? Mi riferisco soprattutto al tema della migrazione e al nostro rapporto con i migranti. E alle diversità e al rispetto delle identità altrui. Viviamo nell’illusione di un’effimera condivisione, un’identità fragile, in questo contesto si innestano gli altri, i migranti, che in qualche modo tentano di usurpare quella fragile identità, con i quali appare inverosimile dover condividere lo stesso sentire globale. Siamo tutti diventati potenziali citizen reporters che, se solo dotati di uno smatphone, possono registrare e immediatamente inviare nelle reti globali qualsiasi illecito compiuto da chiunque, in qualsiasi luogo. Le nuove tecnologie non hanno di per sé modificato il modo di fare informazione sul fenomeno dell’immigrazione. Lo diventano nella misura in cui ognuno di noi riesce ad assumere un ruolo attivo, espande il proprio universo relazionale innescando un processo di comunicazione che crea consapevolezza e ascolto, attivando quei comportamenti che originano una nuova cultura partecipata. Ma questa rappresenta una visione prospettica, la realtà mostra ancora troppe luci ed ombre. Egoismo e sensazionalismo prevalgono su condivisione e ascolto. Le urla del razzismo e del rifiuto sono la colonna sonora del nostro quotidiano. Il fenomeno non è governato, lavoriamo sull’emergenza e non sulla progettazione. Viviamo all’insegna della paura dell’altro e non dell’accettazione. Se non comprendiamo la necessità del cambiamento, la società in rete costituirà isole invece di uno spazio comune. Tutti gli uomini sono diversi tra loro e questa diversità è una fonte di ricchezza. Bisogna trasmettere alle nuove generazioni che siamo accomunati dal rispetto dell’altro. Una corretta educazione formerà gli uomini e le donne del futuro, disposti ad abbracciare chiunque viva la propria vita nel modo che ritiene opportuno. Dobbiamo far comprendere ai più piccoli che l’amore verso noi stessi e gli altri sta alla base di tutto. Solo partendo dall’amore riusciremo a riconquistare quei valori che sembrano perduti. Inoltre, gli adulti hanno il compito di far capire ai giovani che chi è diverso da noi può offrirci solo nuove prospettive per renderci migliori. Il sociologo polacco Zygmunt Bauman ha scritto che: «Il potere non unifica e non livella le differenze né verso l’alto, né verso il basso; il potere divide e oppone. Il potere è nemico giurato e soppressore della simmetria, della reciprocità e della mutualità». Bauman ha descritto nel suo saggio «Danni collaterali. Diseguaglianze sociali nell’età globale» il mondo contemporaneo analizzando le disuguaglianze in rapporto alla definizione di modernità liquida. Uno dei temi affrontati è quello della sicurezza e ha affermato che: «Il più pernicioso, seminale e duraturo effetto dell’ossessione della sicurezza (il danno collaterale perpetrato da questa) sta forse nell’esaurire la fiducia negli altri e nell’instillare e promuovere il sospetto reciproco e […] l’estraneità degli estranei è destinata ad accrescersi fino ad acquisire toni vieppiù tetri e sinistri […] Tutto sommato, il principale effetto dell’ossessione per la sicurezza sta nel rapido intensificarsi (anziché scemare) del clima di insicurezza, con tutto ciò che esso comporta». Emerge la gravità delle diseguaglianze sociali che, nell’era della globalizzazione, è amplificata dalla divisione tra politica e potere. È inaccettabile che nel XXI secolo ci siano stereotipi da abbattere e Papa Francesco ha lanciato un grido d’allarme: «Siamo uguali. La nostra vocazione è piuttosto quella di rendere concreta ed evidente la chiamata all’unità di tutto il genere umano». Allora, fermiamoci e diamo spazio alla valorizzazione dell’altro nelle sue differenze e vediamo in lui un fratello perché, ha detto il Papa, oggi la fratellanza è la nuova frontiera dell’umanità. O siamo fratelli, o ci distruggiamo a vicenda. È giusto ribadirlo nel giorno di san Francesco e della sua festa.

Tutta la redazione del giornale on line, www.ilsaltodellaquaglia.it, augura al professore Francesco Pira, al papà del professore Reina Pietro Salvatore e a chi porta il nome di Francesco e Francesca tanti auguri di buon onomastico. Nomen est omen!

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