Carlo Coccioli, un livornese a Città del Messico

Articolo di Gordiano Lupi

Cosmopolita lo son sempre stato, forse la colpa è stata di mio padre, e se dico che mi sento alla fin di questa vita più messicano che italiano dico il vero, ma Livorno resta nel mio cuore, quella sì, per sempre, la città dove si nasce non la puoi scordare. Ma Tripoli, la Libia e la Cirenaica, Bengasi, dove faccio scorrere un’esistenza fanciullesca, dove cresco, adolescente inquieto, pieno di dubbi, ebbro di emozioni, fan parte di me anche loro, son la mia vita. E quando torno a casa non è Livorno la meta designata, ma vado ai confini, a Fiume, per studiare, quindi in Toscana, insieme a mamma, quando scoppia la Seconda Guerra Mondiale. Ho 23 anni e son partigiano, sui monti del nostro Appennino, mi prendono i tedeschi e mi rinchiudono, ma evado dal carcere di Bologna. Una medaglia al merito non è la cosa di cui vado più orgoglioso in vita mia, ché la guerra è la cosa più sporca che ci sia, ma dalla parte giusta sono stato, almeno questo è certo, ha un significato. Cosmopolita resto anche nel dopoguerra, prendo la laurea a Napoli in lingue orientali, poi sono a Parigi – altra città del cuore – come Modigliani me ne innamoro, forse perché siamo entrambi livornesi. Il cielo e la terra lo scrivo in Fancia nel Cinquanta che ho trent’anni, la prima cosa importante che produco, parlo di guerra e religione, fede e speranza. Mi traducono un poco dappertutto, forse il mio scrivere vale qualcosa, penso, ma il romanzo della mia vita è quel Fabrizo Lupo che scrivo nel 1952 ma in italiano non lo voglio fare, credo che non sarebbe capito, racconta della scoperta dell’omosessualità da parte del personaggio principale, di tutti i suoi dubbi, dei problemi interiori, perché cattolico, credente, uomo di fede. Uno scandalo, una vergogna, un’onta, ché quel romanzo parla di me, della mia vita, Fabrizio Lupo son io, come direbbe Flaubert per Madame Bovary.Non mi resta che la fuga, non solo dall’Italia, dall’Europa. Vado in Messico, qui resto fino alla morte, più che ottantenne, in un paese che diventa il mio paese. Imparo a scrivere spagnolo quasi meglio di come scrivo in italiano, anzi penso che il castigliano sia una lingua perfetta, coerente, di certo meno approssimativa del nostro italiano. Quando Fabrizio Lupo esce in Italia – ho 58 anni, spalle larghe, ormai son messicano – siamo nel 1978, lo comprendono in pochi, soprattutto non viene mai accettato. I romanzi più importanti li ho scritti tutti in Messico, da L’erede di Montezuma a Davide, che va in finale al Campiello e vince il Basilicata. E alla fine capisco che cattolico proprio non posso essere, quindi sperimento, prima induismo, poi ebraismo, infine il mio riparo religioso sta nel buddismo e in quel diario minimo che scrivo – Piccolo Karma – che esce anche Italia, nel 1987. Una delle cose belle della mia vita è che non mi servono neppure i traduttori, scrivo in francese e pure in spagnolo come scrivo nella mia lingua madre. Posso tradurre e modificare, perché so bene che una lingua non vale l’altra, che nei vari idiomi esistono diversi modi di dire, si erigono barriere culturali. Eh, per l’inglese no, mi sarei dovuto organizzare. Per l’inglese ho bisogno di qualcuno che comprenda quel che scrivo e poi lo faccia capire. Non è così facile. Non è così scontato. Tant’è vero che in Italia non sono stato mai capito.

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