In genere, pensiamo che la principale fonte di inquinamento siano i trasporti

Articolo di C. Alessandro Mauceri

In genere, si pensa che la principale fonte di inquinamento siano i trasporti. Specie quelli su gomma. Non è esatto. In realtà, tutto quello che facciamo ha un peso, più o meno rilevante, sull’ambiente. Tutto in un modo o nell’altro lascia un’ “impronta”. In questo articolo (e in quelli che seguono), analizzeremo alcuni settori il cui impatto sull’ambiente è sorprendentemente elevato.

Cominciamo con l’abbigliamento. L’abitudine di comprare i propri capi online è sempre più diffusa. Questo consente di trovare misure e modelli spesso introvabili nella nostra città, nel negozio dietro l’angolo. Abiti che soddisfano le nostre necessità (o i nostri desideri) più di quelli che troviamo nel negozio sotto casa. Ma questo modo di fare ha un impatto sorprendente sull’ambiente e sull’economia locale.

Nei giorni scorsi, la trasmissione televisiva Report ha diffuso i risultati di un’inchiesta condotta da Greenpeace Italia su alcune delle più diffuse piattaforme e-commerce. Sono stati acquistati 24 capi d’abbigliamento per i quali gli “acquirenti” si sono avvalsi del diritto di reso. Non prima, però, di aver piazzato sui singoli capi dei Gps, localizzatori in grado di rilevare e tracciare gli spostamenti di questi capi. In poco meno di due mesi, i colli con gli abiti hanno percorso quasi 100 mila chilometri! Hanno attraversato 13 Paesi europei spesso provenienti dalla Cina. Mediamente, la distanza percorsa dai prodotti per consegna e reso è stata di 4.502 km. Il tragitto più breve è stato di 1.147 km, il più lungo di 10.297 km.

Spostamenti che non possono non avere un effetto negativo sull’ambiente. I colli hanno viaggiato su camion, aerei e navi. “La nostra indagine conferma come la facilità con cui si possono effettuare i resi nel settore del fast-fashion, quasi sempre gratuiti per il cliente, generi impatti ambientali nascosti e molto rilevanti”, ha dichiarato Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. “Mentre alcune nazioni europee hanno già legiferato per arginare o evitare il ricorso alla distruzione dei capi d’abbigliamento che vengono resi al venditore, lo stesso non può dirsi per la pratica dei resi facilitati, che incoraggia l’acquisto compulsivo di vestiti usa e getta, con gravi conseguenze per il pianeta”.

Un’abitudine che ha molte conseguenze anche dal punto di vista dell’impatto sull’economia dei singoli Stati destinatari dei pacchi: chi paga i dazi quando questi colli vengono introdotti sul mercato dall’estero (da Paesi extra UE)? E chi verifica il pagamento delle tasse di chi effettua la vendita? Che la vendita online sia estremamente vantaggiosa per i clienti finali è confermato dal fatto che, recentemente, il principale azionista di Amazon Jeff Bezos è tornato ad occupare la prima posizione assoluta tra i superricchi del mondo. Secondo l’ultima stima del Bloomberg Billionaires Index, il patrimonio netto di Bezos supererebbe i 200 miliardi di dollari. Al terzo posto di questa classifica ci sarebbe un altro super ricco della moda: Bernard Jean Étienne Arnault, fondatore, chairman e CEO di LVMH, la più grande compagnia francese (secondo alcune stime controlla quasi 2/3 del mercato della moda e del lusso a livello globale, una posizione che secondo Forbes, gli avrebbe permesso di accumulare un patrimonio di 226,5 miliardi di dollari).

Centinaia di miliardi di dollari grazie ai capi di abbigliamento venduti. Da quello più elegante a quello più comune. A cominciare dai normalissimi jeans. Secondo le stime sono più di 3 miliardi e mezzo i capi in denim prodotti ogni anno. Ma anche i jeans hanno un impatto considerevole sull’ambiente.

Il classico colore blue dei jeans è dovuto alla tintura indaco. La crescente domanda di blue jeans ha portato i produttori a non utilizzare solo indaco naturale ma cercare di sintetizzarlo. Nessuno dice che per diventare colorante liquido, l’indaco deve essere modificato utilizzando sostanze chimiche “aggressive” che legano il colorante alle fibre degli indumenti. Oggi, l’industria del denim utilizza circa 50.000 tonnellate di indaco sintetico all’anno (alle quali si devono aggiungere oltre 84.000 tonnellate di idrosolfito di sodio come agente riducente). Sostanze chimiche tossiche che hanno un impatto devastante sull’ambiente. Basti pensare che tingere un paio di jeans (UNO SOLO) può richiedere quasi 30 litri d’acqua. Ma non basta. Gli additivi chimici utilizzati con l’acqua sono altamente alcalini e corrosivi. A questo si aggiunge che, spesso, per sfuggire ai controlli degli ambientalisti, questi tessuti o anche i capi di abbigliamento completi, vengono realizzati in Paesi dove i controlli sono quasi inesistenti. L’acqua contaminata dalle sostanze chimiche finisce nei corsi d’acqua vicino alle fabbriche, decimando gli ecosistemi locali e persino tingendo di blu i fiumi. Ma l’impatto sull’ambiente non finisce qui: secondo uno studio recente, ogni volta che un paio di jeans viene lavato rilascia oltre 50mila microfibre, che finiscono in acqua ed arrivano fino agli oceani. Un sondaggio condotto dall’Università di Toronto ha rilevato che tra una su otto e una su quattro di tutte le microfibre rilevate nei campioni di acqua provenivano da blu jeans.

Eppure, c’è ancora chi, per ridurre la propria “impronta” sull’ambiente, pensa che sia meglio comprare auto elettriche. E poi guidarle sereno, magari con indosso un bel paio di blue jeans comprato online (per risparmiare i soldi per pagare l’auto elettrica…)

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