Il futuro politico di Netanyahu

Articolo di C. Alessandro Mauceri

Il futuro politico di Netanyahu potrebbe essere tutt’altro che roseo. Il leader israeliano potrebbe essere giunto alla fine di una lunghissima carriera: il suo primo mandato risale addirittura al 1996. Terminò nel 1999. Ma fu solo una breve pausa: pochi anni dopo Netanyahu riuscì a farsi rieleggere per ben tre volte (nel 2009, nel 2013 e nel 2015). È al potere ininterrottamente dal 2009. Negli ultimi venti anni Benjamin, detto Bibi, Netanyahu è stato il volto di Israele, la figura politica che ha catalizzato l’attenzione mondiale e segnato per sempre la scena politica di questo Paese seppure con alti e bassi. In questi decenni ha segnato la politica israeliana, ma ha lasciato sul terreno spaccature e divisioni a volte insanabili.

Non sono pochi i problemi che Netanyahu deve risolvere. Dal 2019 è accusato di frode, corruzione e violazione della fiducia in diversi casi. L’ultima udienza si è svolta nel dicembre 2023, dopo una pausa di due mesi ottenuta proprio grazie alla guerra nella Striscia di Gaza. Processi che hanno messo in luce una precarietà politica che a molti ha fatto pensare alla guerra (e alla sua apertura verso una certa forma di estremismo) come una scusa per conservare l’immunità e non essere condannato.

Nel 2019 (che strana coincidenza di date…) la sua egemonia politica aveva mostrato qualche incrinatura: da allora il Likud, il partito di stampo conservatore di cui Netanyahu è leader dal 2005, ha cominciato a perdere consensi. Nelle ultime elezioni, il Likud ha avuto “solo” 31 seggi: pochi per gestire da solo il Paese. Netanyahu è stato costretto a stringere nuove alleanze politiche. Ma anche a cedere posizioni di rilievo ai partiti alleati: nell’ultimo governo, Bibi è stato costretto a lasciare alcuni posti importanti nelle mani di esponenti politici assurti agli onori delle cronache per il loro radicalismo. C’è stato addirittura chi ha lanciato pubblicamente l’idea di utilizzare nel conflitto con i palestinesi la bomba atomica.

Scelte che hanno avuto due conseguenze. La prima è stata la perdita del sostegno di alcuni media che si hanno espresso un giudizio negativo sul governo Netanyahu definendolo il “governo più conservatore della storia di Israele”. La seconda è forse ancora più importante: per la prima volta dopo 50 anni, Israele non farebbe più parte dei Paesi con una democrazia liberale. Ad affermarlo è l’ultimo rapporto annuale pubblicato da V-Dem, uno dei principali indici di democrazia globale. Il declino di Israele, ora classificato come democrazia elettorale, sarebbe dovuto anche agli sforzi del governo per approvare la controversa revisione giudiziaria dello scorso anno. “In particolare, Israele ha perso il suo status di democrazia liberale di lunga data nel 2023. Per la prima volta dopo oltre 50 anni Israele è stato classificato una democrazia “elettorale”. Una decisione dovuta principalmente al sostanziale calo degli indicatori che misurano la trasparenza e la prevedibilità della legge e agli attacchi del governo alla magistratura, secondo gli autori del rapporto. “La Knesset israeliana ha approvato un disegno di legge del 2023 che priva la Corte Suprema del potere di invalidare le leggi, minando così i controlli sul potere esecutivo. Tra gli indicatori che sono in sostanziale declino c’è anche la libertà dalla tortura”, rileva il rapporto. La decisione del governo di sospendere gli sforzi per approvare la revisione ha scatenato non poche proteste. Specie dopo gli eventi del 7 ottobre scorso.

Manifestazioni che hanno confermato che il Paese sta attraversando un momento di confusione mai visto negli ultimi decenni. Una situazione che potrebbe aver spinto il governo a colpire obiettivi oltre frontiera. Un modo per distrarre l’attenzione dei media internazionali. Una condizione che alcuni analisti hanno paragonato all’11 settembre degli USA.

Anche la decisione del governo di creare un gabinetto di guerra non è bastata: a questo tavolo non sono stati invitati i ministri di “posizioni controverse” del governo. A farne parte sono stati chiamati militari e politici con una certa esperienza in campo strategico militare. Questo non ha fatto che peggiorare il livello dei consensi per il Primo Ministro. E non sono pochi a pensare che, una volta terminato il conflitto, Bibi potrebbe essere costretto ad una chiusura anticipata della propria esperienza politica. La popolarità di Netanyahu all’interno del Paese è ai minimi storici. E la sua ostinazione nel bombardare i civili e a non rispettare le decisioni delle Nazioni Unite sta mettendo a rischio anche i consensi dei Paesi che fino ad ora lo avevano sostenuto. Cosa questa che peserà fortemente sulla sua leadership e sul suo futuro politico. Del resto, gestire la coalizione dei partiti dell’esecutivo non è facile. C’è anche chi ha accusato i servizi d’intelligence di avere sottovaluto la possibilità di un attacco di Hamas, considerandolo “troppo ambizioso” per potere essere realizzato. Accuse pesanti specie considerando che da sempre l’intelligence è uno dei fiori all’occhiello di Israele.

In attesa del rapporto della commissione d’inchiesta incaricata di ricostruire quanto è avvenuto il 7 ottobre (dal quale potrebbero emergere responsabilità per i vertici strategici e militari ma anche politiche), c’è chi ha fatto notare che, storicamente, in Israele, commissioni di questo tipo hanno segnato dei momenti spartiacque: la destra revisionista di Likud ebbe grande slancio dal risultato della Commissione Agranat che assolse Golda Meir e dalla Commissione Kahan che, nel 1982, cercò di ricostruire le responsabilità del massacro di Sabra e Shatila.

Anche l’Economist non vede per il premier un grande futuro. A pesare ci sarebbe anche il (mancato) riavvicinamento diplomatico tra Israele e gli stati arabi (per ora “solo” sospeso). Per non parlare del costo della guerra e del sostegno alle persone colpite, dell’aumento del costo della vita e delle riforme del mercato del lavoro. Tutti problemi irrisolti. Le stime parlano di un aumento del disavanzo fiscale nel 2024 proprio a causa delle spese legate alla guerra. Tutte questioni che mettono a rischio il futuro della carriera del premier.

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