Con la terza e ultima stagione, Squid Game chiude il cerchio di una narrazione iniziata nel 2021 e diventata rapidamente un fenomeno culturale di portata mondiale. Ideata dal regista e sceneggiatore sudcoreano Hwang Dong-hyuk, la serie ha conquistato milioni di spettatori grazie alla sua capacità di fondere tensione narrativa, dramma psicologico e critica sociale in una formula dirompente. Uscita il 27 giugno 2025 su Netflix, e distribuita anche su Sky Q, Sky Glass e Now, questa stagione finale – composta da sei episodi – alza ulteriormente l’asticella, non solo in termini di spettacolarità e violenza, ma soprattutto sul piano simbolico e sociologico.
La terza stagione si apre con un ritorno: quello di Gi-hun, protagonista assoluto della saga, che decide di rientrare nel Gioco per affrontare finalmente il sistema dall’interno. Tuttavia, la promessa di giustizia si infrange quasi subito. Le regole sono più dure, le prove più crudeli, e i meccanismi psicologici utilizzati per spezzare la volontà dei concorrenti sono ancora più raffinati. I creatori del Gioco si mostrano in tutta la loro cinica spietatezza, mettendo in scena un esperimento sociale che non lascia spazio alla speranza.
La narrazione esaspera così la componente distopica già presente nelle stagioni precedenti. Ogni episodio è una discesa negli abissi dell’animo umano, in un crescendo di violenza che non è mai gratuita, ma finalizzata a portare alla luce le crepe della nostra società. La brutalità non è fine a sé stessa: è una lente crudele ma efficace con cui leggere le dinamiche del potere, della disuguaglianza e del controllo.
Sul piano tematico, Squid Game 3 ruota attorno a tre concetti fondamentali: verità, vendetta e redenzione. Non si tratta solo di snodi narrativi, ma di categorie sociologiche attraverso cui leggere l’intera stagione.
La verità, nella serie, non è mai univoca né accessibile. È frammentata, distorta, manipolata da chi detiene il potere. I giocatori sono costretti a navigare in un labirinto di bugie, inganni e apparenze, specchio di una società contemporanea dove la trasparenza è ostacolata da interessi economici e logiche di dominio. Il Gioco, in questo senso, diventa metafora di una realtà in cui la verità è subordinata al potere, e dove l’accesso all’informazione è spesso mediato da chi vuole mantenere lo status quo.
La vendetta si presenta come motore delle azioni di Gi-hun e di altri personaggi. È una risposta quasi inevitabile alla sofferenza, ma si carica di ambiguità morali. Non c’è nulla di catartico o liberatorio: la vendetta, nella logica del Gioco, finisce per alimentare la stessa spirale di violenza che si vorrebbe spezzare. Questo interrogativo etico apre a una riflessione su quanto sia arduo rompere il ciclo dell’odio in una società già segnata da profonde disuguaglianze.
Infine, la redenzione – rappresentata in modo struggente nel sacrificio finale di Gi-hun – suggerisce che anche nei contesti più disumanizzanti è possibile scegliere l’altruismo.
La sua azione estrema diventa simbolo della possibilità di opporsi alla logica del dominio attraverso la responsabilità individuale. È una scelta che non salva, ma che indica una direzione diversa, quella della coscienza critica e della solidarietà.
I personaggi che animano Squid Game 3 non sono costruiti come individui complessi, ma come tipologie sociali. Sono “maschere”, nel senso pirandelliano del termine: rappresentazioni simboliche di categorie umane, di ruoli e funzioni all’interno del tessuto sociale. In loro si riconoscono il cinico arrivista, il disperato, l’opportunista, il traditore, ma anche l’idealista, il resistente, il sacrificato. Ognuno di loro incarna un archetipo che aiuta lo spettatore a riflettere su sé stesso e sulla società in cui vive.
L’alienazione, tema caro alla sociologia classica, torna con forza in questa stagione. Il Gioco premia la competizione estrema, l’individualismo spietato, l’adattamento passivo a regole inumane. I più fragili vengono travolti da una logica che non ammette solidarietà o debolezze. È il ritratto di una società in cui l’empatia è diventata un lusso, e dove il successo individuale è raggiunto spesso a scapito degli altri.
Un aspetto centrale emerso sin dalla prima stagione è il sorprendente impatto della serie anche sui più giovani. Molti bambini e adolescenti, attratti dalla narrazione e dalla potenza visiva delle scene, si confrontano quotidianamente su questi contenuti, a volte senza possedere gli strumenti adeguati per interpretarli. Questo fenomeno interpella direttamente genitori, educatori e insegnanti, che non possono ignorare la presenza pervasiva di prodotti culturali come Squid Game nella vita dei ragazzi.
Viviamo in un’epoca dominata dal consumo on demand: la cosiddetta “Generazione Netflix” accede ai contenuti in modo autonomo e continuo. In questo contesto, la funzione dell’adulto non può limitarsi alla censura, ma deve assumere un ruolo educativo attivo. Spiegare, contestualizzare, guidare la visione sono azioni imprescindibili per evitare che messaggi complessi come quelli veicolati da Squid Game vengano interiorizzati in modo distorto. Solo accompagnando i più giovani in un percorso di comprensione critica, si può trasformare un prodotto narrativo controverso in un’occasione di crescita e consapevolezza.
Il finale della terza stagione è volutamente ambiguo e doloroso. Non c’è una vera liberazione, né un lieto fine. Il sistema che ha creato il Gioco non viene sconfitto, ma sopravvive, pronto a riformularsi sotto nuove spoglie. Questo epilogo, da un punto di vista sociologico, riflette la difficoltà – se non l’impossibilità – di scardinare strutture di potere profondamente radicate. È l’immagine di un mondo dove la violenza strutturale e l’ingiustizia sociale si perpetuano attraverso logiche sempre più sofisticate, difficili da identificare e combattere.
Eppure, anche in mezzo a tanta oscurità, la serie lascia aperto uno spiraglio. Non nella speranza ingenua che tutto possa cambiare dall’oggi al domani, ma nella consapevolezza che ogni gesto di resistenza, ogni scelta morale, ogni atto di solidarietà ha un valore. Squid Game 3 non offre soluzioni, ma chiama alla responsabilità: quella individuale e collettiva. Invita lo spettatore a interrogarsi sul proprio ruolo nel mantenere – o nel rompere – i meccanismi sociali che generano sofferenza e disumanizzazione.
Insomma, la terza stagione di Squid Game non è solo il capitolo conclusivo di una serie di successo, ma un manifesto sociologico che ci costringe a guardarci allo specchio. Denuncia le storture di un mondo sempre più competitivo, alienante e crudele, ma ci invita anche a non rimanere spettatori passivi. Ogni spettatore è anche un cittadino, un genitore, un educatore, un essere umano chiamato a scegliere da che parte stare. Il Gioco è finito, ma la partita della società continua. E non possiamo permetterci di restare in silenzio.