Il crepuscolo sallustiano: l’alba della storia romana

Articolo di Filippo Scimé

Sin dai tempi più antichi l’uomo ha ritenuto fondamentale ripercorrere il proprio passato per eternarlo, tramandandone le sue gesta con i poemi epici, o tentando di comprendere le cause degli eventi che hanno segnato il suo cammino, ricostruendo, tramite ricerche e indagini, il passato con le prime opere che hanno per oggetto la storia.

Il sabino Gaio Sallustio Crispo, dopo una deludente parentesi politica, decise intorno al 44 a.C. circa di dedicare il suo otium alla memoria rerum gestarum, in quanto tale attività, degna e utile, lo avrebbe riscattato da quel suo sciagurato tentativo di cambiare le sorti politiche di Roma. La concretizzazione dei suoi propositi avvenne attraverso tre opere: il De Coniuratione Catilinae, il Bellum Iugurthinum e le Historiae. Le prime due sono monografie storiche che, rompendo il classico impianto annalistico, introducono il racconto di un singolo episodio cronologicamente lontano nello spazio e nel tempo. Con l’ultima, invece, riprendendo laddove aveva lasciato Lucio Cornelio Sisenna con le sue Historiae, egli ritornava al concepimento dell’opera storica come esposizione continua degli eventi, seppur focalizzandosi sul tratteggio delle grandi figure di fine I a.C. e sull’agonia della repubblica romana ormai prossima al declino.

Nei confronti di una longeva tradizione storiografica latina risalente agli Annales, la produzione di Sallustio propone un nuovo modello che cambiò nettamente la maniera di comprendere la storia e di scriverla. Intendo pertanto riconoscere in questa scelta uno studio analitico che scardina la rigida catalogazione degli eventi e si propone un nuovo studio della natura umana, ben lontano dall’esaltazione delle imprese gloriose delle famiglie patrizie con le quali Roma si presentava al mondo conosciuto di allora. A ciò si aggiungeva la spiccata preferenza nella trattazione di un singolo momento, capace di evidenziare le radici della decadenza della Repubblica. Quindi con Sallustio, oltre alla nascita dello storico di professione, lo storico stesso comincia a porsi delle domande, indagando sulle cause e sugli effetti e ribattendo, soprattutto nelle introduzioni iniziali (alludo ai proemi introduttivi alle due monografie), l’utilità pratica dell’insegnamento storico, qualificando altresì un’attività che un tempo era relegata alla penna degli unici testimoni della verità storica: i politici di professione, testimoni autentici della comunità urbana.

Si potrebbe obiettare facilmente questo assunto rispondendo che Sallustio fu un uomo politico, ma l’attività di storico, in questo caso, coincide con una perentoria volontà di rimozione della sua esperienza politica o quanto meno di un distacco netto da quelle che egli stesso chiama malarum artium, le quali avevano contaminato l’animo di un giovane ansioso di servire lo stato con i propri mezzi. I proemi, a questo proposito, potrebbero fornire un’utile appiglio alla questione alla quale intendo richiamarmi. Così nel De Catilinae Coniuratione al paragrafo quarto leggiamo un breve excursus riguardo il suo passato e la sua nuova scelta di vita: “igitur, ubi animus ex multis miseriis atque periculis requievit et mihi relicuam aetatem a re publica procul habendam decrevi, non fuit consilium socordia atque desidia bonum otium conterere, […] intentum aetatem agere”; ovviamente la scelta di un otium così prestigioso, e al tempo stesso lontano dall’azione, fu dettata, mio modesto avviso, dalla morte di Cesare, suo protettore, la quale sancì il tramonto delle ambizioni dei populares e delle piccole speranze di Sallustio di far carriera.

Non bisogna sottovalutare però che l’attività dello storico di professione, mentre infuriava la tempesta di una nuova guerra civile, fu anche l’unica opportunità plausibile di occuparsi della res publica silentemente e promuovendo uno ricerca spietata verso quei mali che riportavano in auge l’aspra crudeltà della guerra.

Altrettanto netta è la decisione di abbandonare la vita politica anche nel Bellum Iugurthinum ove leggiamo al paragrafo terzo: “quia decrevi procul a re publica aetatem agere” e più avanti rincara la dose tracciando una linea di demarcazione morale tra il presente e il passato: “Atque ego credo fore qui, […], certe quibus maxuma industria videtur salutare plebem et conviviis gratiam quaerere. Qui si reputaverint et quibus ego temporibus magistratus adeptus sum [et] quales viri idem adsequi nequiverint, et postea quae genera hominum in senatum pervenerint, profecto existumabunt me magis merito quam ignavia iudicium animi mei mutavisse”. La caratura morale degli individui si è abbassata proprio perché la politica è diventata una passione ignobile e dannosa “inhonesta et perniciosa lubido”. Sallustio si propone dunque una nuova attività da un punto di osservazione diverso, decisamente storico, e anzitutto sociale, come mai prima di allora era avvenuto.

L’agire politico si trasforma in netta consapevolezza delle dinamiche che lui stesso aveva vissuto in prima persona e meglio d’altri poteva descrivere con il suo stile asciutto, innervato da un periodare schematico di pensieri, che assecondano rimpianti, ardori, ideali, i quali accennano a spegnersi in un pessimismo sempre più cupo, come un soffio che smorza la luce ondivaga di una candela. Che una delle due anime identificate (politico e storico) possa prevalere sull’altra, ne dubito, pienamente consapevole che la narrazione che aveva in mente Sallustio, seppur osteggiata da un avversione profonda per gli aristocratici, era di impronta morale diluita da una sagace filosofia di pensiero che si destreggia tra platonismo e stoicismo (con buona pace degli studiosi cercano ancora una versione definitiva), per interpretare una decadenza che protraeva le sue radici nel presente da lui vissuto.

Sarebbe un torto considerare le monografie sallustiane come opere rivolte al passato. Chi scrive, nella assolata quiete degli Horti Sallustiani, osserva con tribolazione, in un ozio che ritiene vantaggioso per lo stato, il volgere precipitoso degli eventi che vede opporsi Marco Antonio, tutore della memoria cesariana, e il giovane Gaio Ottavio, che Cesare aveva adottato per testamento e nominato suo erede. Dopo la battaglia di Modena i due, insieme al magister equitum Marco Emilio Lepido, si proclamano triumviri reipublicae costituendae e, in seguito alla sconfitta dei cesaricidi, si spartiscono le sfere d’azione determinando una serie di conflitti armati terminati solo all’indomani della guerra aziaca nel 31 a.C.

Sallustio decise di non prendere le parti di nessuno dei due contendenti, ma i protagonisti di questo scenario apocalittico sono mossi da ambizione, cupidigia, e superbia proprio come Catilina e Giugurta, Mario e Silla. La visione dello storico poté germinare solo in questo contesto conflittuale nel quale appunto il passato non diventa il pretesto per dimenticare il presente, ma lo specchio per capire da cosa era scaturita l’azione violenta dell’oligarchia romana sulla riforma dello stato vagheggiata da Cesare.

La storia, diventata un’attività degna allo stesso livello della grande oratoria, registra gli avvenimenti culturali e sociali e ravvisa in essi mutazioni profonde: Giugurta è sconfitto dopo una lunga e annosa guerra dalla risolutezza di Gaio Mario, l’homo novus, che ricoprendo la carica di console per sette anni consecutivi scatenerà le reazioni dei nobili; da qui si verrà alla guerra civile con Silla e all’instaurazione della dittatura, la stessa che subodora Sallustio mentre scrive. Ecco il motivo per il quale Sallustio riconosce alla storia una dignità superiore e una funzione pari all’attività politica: essa diventa il metro per giudicare i fatti e la misura per comprendere la nascita, lo sviluppo e il declino dei fenomeni umani.

La Roma che descrive lo storico sabino è fragile, dimentica della propria natura ferina che l’aveva resa padrona assoluta del mediterraneo e futura madre del diritto, per citare il pensiero di Jean Gaudemet; l’esposizione dei fatti mette allo scoperto le debolezze che disvelano il disfacimento del costume antico, e di riflesso si scorge uno spirito ormai fiaccato dall’insorgere di dinamiche nuove che portavano avanti i vecchi spettri monarchici. Il riscatto che gli si offre, dopo uno sciagurato cursus honorum, è di mostrare l’alveo dei legami di causa ed effetto tra l’oligarchia senatoria e la geminazione dei vizi che spinsero gli uomini a tentare di rovesciare l’ordine costituito (si pensi a Catalina) o a dileggiare apertamente l’inefficienza di Roma (si veda il caso dello sprezzante Giugurta). Il presente ora come allora continua a fare il suo corso, e tale controindicazione rimane ancora inascoltata.

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