L’estetica e la scienza nel simbolismo religioso di Leonardo da Vinci raccontate da Marco Versiero

Articolo di Pietro Salvatore Reina

Il 2 maggio 1519 muore nel Castello di Clos Lucé (https://vinci-closluce.com/en) ad Amboise, nel cuore della Loira, Leonardo da Vinci. Nel 1517 Leonardo si trasferisce ad Amboise, alla corte di re Francesco I di Francia, accompagnato dall’amico e allievo Francesco Melzi, suo esecutore testamentario al quale lascia tutti i suoi libri e i suoi disegni.

Osservare, com-prendere la «scienza della pittura», il «saper fare» tecnica pittorica di Leonardo implica penetrare nel «circolo virtuoso di conoscenza e rappresentazione in cui sono costantemente coinvolti mente-occhi-mani» (Rodolfo Papa, Leonardo. La tecnica pittorica, Art e Dossier, Giunti, p. 5).

La pittura come artificio della verosimiglianza totale (grazie all’estetica del colore affidata alla mimesi delle velature o trasparenze e al chiaroscuro della luce e dell’ombra come copula anche semantica di verità e finzione), la «proporzionata armonia» che unifica in una regola di scientifica reciprocità la ‘prima’ natura (il cosmo) alla ‘seconda’ (l’uomo), le figurazioni dell’ingegno che si rendono – tra visione profetica e allegoria politica – specchio dei tempi, sono alcuni dei tòpoi che Marco Versiero – storico del pensiero politico e docente incaricato di Iconologia Politica presso il dipartimento Storico-Filosofico-Letterario dell’Università della Terza Età Card. Colombo di Milano – analizza, ricerca, studia e che nello «spazio aperto» di quest’intervista ri-vela anche a noi, lettori non specialisti.

Soprattutto in uno dei suoi ultimi “libri-studio” (https://www.mandragora.it/prodotto/leonardo-la-natura-allo-specchio), l’attenzione è puntata sulla visione (oculare e mentale) come specchio dell’anima (intellettiva) di Leonardo: una delle molte anime, tutte avide di novità e sperimentazioni, di questo artefice, che da anni Versiero – con acume, passione e audacia – studia e «iscopre».

D.: Il viaggio nella natura profetico-simbolica dei colori e della luce leonardeschi muove dalla Sant’Anna, la Madonna e il Bambino con l’agnello (1503-1513 e oltre) esposta al Louvre. L’acqua, la terra, le varie posizioni del corpo, i moti dell’animo, i paesaggi, gli animali, le luci e le ombre di quest’opera esaltano la «pittura come filosofia» di Leonardo: non solo rappresentazione, è essa stessa strumento di conoscenza. I colori e le forme di Leonardo, nello scorrere del tempo, quale realtà naturale e metafisica svelano?

R.: La Sant’Anna, incompiuto capolavoro dell’avanzata maturità, costituisce l’approdo di un itinerario iconografico e stilistico che ha attraversato l’intero arco della sua carriera. Sin dal piccolo dipinto che sembra segnare il suo esordio artistico nell’ambito della bottega del Verrocchio, Leonardo dà prova di una intuitiva padronanza di quei mezzi tecnici ed espressivi che ne caratterizzano inconfondibilmente la capacità di rappresentazione: nella Madonna della melagrana (National Gallery of Art, Washington), attribuita a un Leonardo all’incirca diciassettenne (1469-1470), tanto la delicatezza di trapassi chiaroscurali che accarezzano l’opalescente incarnato della Vergine, trascolorando in setosi riflessi dorati che ne lustrano la vaporosa capigliatura, quanto lo sbiadire delle cime delle montagne in indistinti contorni azzurrini nei due squarci di paesaggio, quasi a timido presagio della «prospettiva aerea» o dei «perdimenti» cromatici per gradiente interposizione dei filtri atmosferici, assecondano del tema mariano una declinazione naturalistica, che si fa sentimentale nello spontaneo motivo ludico del Bambino che porge alla Madre un chicco del frutto vermiglio che è inconsapevole premonizione del suo futuro sacrificio. Emancipatosi dal suo maestro, poco prima dei trent’anni Leonardo inizia nel 1481 per i monaci agostiniani di San Donato a Scopeto (appena fuori le mura di Firenze) la stupefacente Adorazione dei Magi oggi agli Uffizi, oggetto di un meticoloso restauro da parte dell’Opificio delle Pietre Dure tra il 2013 e il 2017: opera capitale, pur nello stadio intermedio di lavorazione in cui ci è giunta (così fu lasciata da Leonardo in casa degli amici Benci all’atto di trasferirsi a Milano l’anno seguente), assurto nondimeno a compiuta espressione artistica nell’ibridato “disegnar dipingendo”, che espone alla vista le progressive stratificazioni della sua peculiare prassi grafica e pittorica, l’Adorazione culmina nel gruppo centrale della Madonna col Bambino, che si fa quasi asse o fuso rotante attorno al quale si sviluppa in un moto di espansione la sinfonia emozionale modulata da un turbinio di masse pulsanti (i Magi, i pastori, i cavalieri, gli astanti), il cui sovreccitato stupore è attivato dall’ostensione salvifica del divino pargolo, trasponendo così quella “scienza degli affetti” applicata ai moti mentali dall’intimità di una dimensione privata alla condivisa orchestrazione di pubbliche reazioni. Al culmine della ventennale permanenza nella Milano sforzesca, al principio dell’ultima decade del secolo il toscano realizza con marginali aiuti della bottega frattanto raccoltasi attorno a lui una versione sostitutiva della pala d’altare per la cappella dell’Immacolata Concezione nella non ormai non più esistente chiesa di San Francesco Grande: è la Vergine delle rocce (National Gallery, Londra), eseguita in stretta aderenza alle investigazioni «de ombra e lume» intraprese con piglio scientifico in manoscritti contemporanei (principalmente, il cosiddetto Codice C dell’Institut de France, compilato nel 1490-1491). L’umbratile umidità dell’utero geologico in cui era immersa la prima redazione del soggetto (Louvre, Parigi; 1483-1486) è ora squarciata con lenticolare perspicuità da un lume soprannaturale che tutto percorre e descrive, dalle incombenti figure tornite sino a simulare un plastico aggetto tridimensionale all’accecante voragine di luce ritagliata tra denti di rocce nel fondale geologico: quasi radianze luminose, le presenze spirituali di questa silente ed enigmatica conversazione sacra esaltano con terso e brillante cromatismo la virginale purezza di Maria, alla quale concorrono anche i valori simbolici sottesi alle specie botaniche che proliferano nel proscenio. Interrotta con la partenza da Milano della fine del 1499 o dell’inizio del 1500, la lavorazione di questo dipinto riprende col ritorno di Leonardo in città a decorrere dal 1506: pur lasciata incompleta in alcune aree (come la mano sinistra dell’angelo e gli scisti rocciosi in primo piano), questa seconda Vergine delle rocce è indubbio preludio ad alcune soluzioni adottate proprio nella Sant’Anna parigina, come lo strapiombo tellurico sul quale incombono i protagonisti in una illusoria proiezione al di qua del diaframma del simulacro pittorico, tale da produrre un disorientamento nella percezione visiva assecondato anche dallo scivolamento delle figure, come in bilico l’una sull’altra. Iniziata a Firenze nel 1503 (come si sa oggi grazie a una rivelatrice postilla manoscritta di Agostino Vespucci) abbandonando precedenti formulazioni sperimentate sul tema sin dal 1499-1501 circa, poi sottoposta a lunga e intermittente gestazione, la Sant’Anna testimonia dunque il ricorso da parte dell’ormai anziano maestro a mezzi intellettualistici per pervenire ad esiti estetici e concettuali ipernaturalistici: ne è esempio la fermentante trasposizione della veduta paesaggistica, permeata da una foschia che pare alludere ai processi di disfacimento e rigenerazione dell’universo naturale colti nel loro fatidico divenire, con i profili frastagliati delle vette dei monti come sfaldati dall’implacabile «tempo consumatore di tutte le create cose» (Codice Atlantico, f. 195 recto), al quale le figure sacre paiono serenamente indifferenti, perché forse del tutto assorbite nel loro escatologico avvicendamento (Maria vorrebbe prevenire il fatale abbraccio di Gesù all’agnello sacrificale ma è a sua volta frenata dalla madre Anna, in cui è adombrata la Chiesa, che vuol vedere compiersi il destino del Salvatore).

D.: Leonardo è un uomo di grandi passioni quali l’Uomo e la Natura. In «Leonardo. La natura allo specchio» analizzi con audacia e maestria gli elementi umani e naturali che, come attraverso una riflettente superficie speculare, si corrispondono. Oggi come è cambiato il rapporto Natura-Uomo? Qual è la «lezione di stile» che oggi Leonardo può offrirci?

R.: Non soltanto come artista ma anche e soprattutto come indagatore della natura, Leonardo ritiene che il proprio ingegno possa e debba operare «a similitudine dello specchio, il quale sempre si trasmuta nel colore di quella cosa ch’egli ha per obietto» (Libro di pittura, §56). Il ricorso al verbo “trasmutare” rende chiaro il convincimento che, al di là di una meccanica operazione di duplicazione speculare, l’invenzione prodotta dall’intelletto e scaturita dall’osservazione della natura si sostanzi in uno sdoppiamento della realtà. La pittura, come specchio che assorbe forme e colori dell’universo, è capace di generare da esse una “seconda natura”, in quanto il suo artefice le introietta (assimilandole tramite una esatta e veritiera esplorazione conoscitiva ottico-sensoriale) e le riplasma in un esercizio “demiurgico” di invenzione, che Leonardo considera simile alla creazione divina: «La deità ch’ha la scienza del pittore fa che la mente del pittore si trasmuta in una similitudine di mente divina» (ivi, §68). La qualità metamorfica dell’imitazione della natura sussiste grazie all’approccio scientifico esercitato in uno studio scrupoloso dei fenomeni naturali, affidato primariamente ai sensi e, su tutti, alla vista, il cui organo, l’occhio, è suggestivamente definito «la finestra de l’human corpo, per la quale la sua via specula e fruisce la bellezza del mondo» (ivi, §28): finestra del corpo aperta all’osservazione del mondo, l’occhio è per la mente un tramite a fruirne la bellezza, rendendo possibile che essa si rifletta e rispecchi nella speculazione intellettiva del pittore. Egli è anche, di conseguenza, un «fintore» (ivi, §177) e, padroneggiando l’osservazione e riproduzione della realtà, può farsi «signore d’ogni sorte di gente e di tutte le cose», arrivando persino ad abbracciare, «in un solo sguardo», tutto «ciò ch’è ne l’universo, per essenzia, presenzia o immaginazione», generandone una «proporzionata armonia» (ivi, §13). Il potere del pittore risiede, cioè, nella sua facoltà di contemplare, in essenza, presenza o immaginazione, l’universo nella sua totalità (vale a dire, non solo per la sua esteriore “presenza” ma anche per la sua insita e astratta “essenza” e persino secondo la pura finzione di una “immaginazione” di esso prodotta dalla mente): la ri-creazione di una “seconda natura” è resa possibile proprio da quel passaggio dalla mente alle mani (in cui si coniugano le due complementari accezioni – concettuale e artigianale – della professione pittorica), attuato mirabilmente mediante l’ausilio del disegno, assumibile a “verbo figurativo” di Leonardo. In esso, infatti, le immagini si concretizzano e manifestano nella istantaneità e progressività del loro stesso prodursi nella sua mente. Il disegno, dunque, è non solo (e non tanto) il concreto e materiale medium grafico attraverso cui dare rappresentazione di quanto si osserva, nella compilazione potenzialmente sterminata di un repertorio del conoscibile o, come pure è stato detto, di un “archivio della visibilità”, ma anche (e soprattutto) un progetto totale di indagine e interpretazione, così dell’universo esteriore, come del mondo interiore dell’artista-scienziato.

Quanto il mondo contemporaneo abbia disatteso l’audace insegnamento leonardiano, generando una spesso deleteria frattura tra teoria e prassi nell’approccio alla conoscenza, che l’osmotica temperie rinascimentale rendeva altrimenti possibile riunire in un virtuoso connubio, fu evidente già ad Antonio Gramsci, che in una lettera dal carcere alla moglie Julca (1° agosto 1932) giunse imperiosamente ad auspicare il rinnovarsi di «un contemperamento armonioso di tutte le facoltà intellettuali e pratiche», da attuarsi a livello pedagogico mediante la ‘ri-creazione’ nientemeno che dell’«uomo italiano del Rinascimento», cui avrebbe dato luogo una sorta di attualizzazione del «tipo moderno di Leonardo da Vinci». Seppur discontinua e frammentaria, la riflessione gramsciana sul maestro toscano è preziosa per la sua lucidità: sin da un giovanile articolo per Il Grido del Popolo (20 novembre 1915), gli era apparsa in tutta la sua evidenza la novità del magistero artistico di Leonardo, in grado di ritrovare un ordine formale, luministico e cromatico persino nelle confuse macchie sui muri (con rinvio a un noto precetto formulato nel Libro di pittura, §66), nelle quali «potevano essere accordi di colori e di luci più perfette di quelle che l’uomo stesso può creare», a voler anche significare metaforicamente quelle «verità che prima non eravamo riusciti a comprendere, [che] ora senza accorgercene ci salgono spontaneamente alle labbra». Tale primato è per Gramsci del tutto affine e complementare a quello che ai suoi occhi scaturisce dal sapere matematico-naturalistico di Leonardo, capace a suo dire di «trovare il numero in tutte le manifestazioni della vita cosmica, anche quando gli occhi dei profani non vedevano che arbitrio e disordine» (Quaderni del carcere, III, 48): ecco dunque che, per estro artistico e intuizione scientifica, a Leonardo è attribuita la prerogativa di poter riconoscere e discernere persino nel caos di una natura apparentemente disordinata i principi normativi che presiedono ineluttabilmente al suo disciplinato funzionamento.

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