I selvaggi della Papuasia, l’avvento di una nuova era

Articolo di Filippo Scimé

Raramente le letterature italiane del passato e del presente hanno dedicato uno spazio a Emilio Salgari, uno tra i pochi scrittori italiani di avventura, se non l’unico, a definire una cifra stilistica autentica e una poetica che non smette di richiamare temi e forme della narrazione attuali.

Sebbene l’avvento della narrativa salgariana sia coinciso con il periodo della grande narrativa europea di avventura e che sommariamente eleggeva a punti di riferimento i vari Verne, London, Conrad, Melville, lo scrittore veronese fu adorato e letto dai giovani italiani della fine dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, ancor quando il pubblico letterario era la pedina di una dinamica curiosa per un paese precocemente alfabetizzato come l’Italia che leggeva – curioso il caso odierno per cui al miglioramento delle condizioni di vita si aggiunge un infiacchimento della pratica – nonostante il suo punto di vista coincidesse raramente con quello dei letterati e dei critici. É pur vero che questa la fruizione del prodotto letterario avvenga a chiazze di leopardo lungo la penisola e in due aree geograficamente spaccate, se, come notava Leonardo Sciascia nella preziosa intervista a Gesualdo Bufalino, la condizione dei giovani nella Sicilia che si affacciavano alla lettura per capire il mondo annoverava “i pochi libri che si trovavano in casa, vecchie riviste, vecchi giornali, la Domenica del Corriere, e gli scrittori russi in edizione Barion o Betti”.

Il momentaneo successo salgariano interrompe l’avvincente praticità di coinvolgere un ampio spettro di lettori, perché l’utenza è strettamente collegata all’arco temporale in essere, e dunque crescendo essa perde il contatto con il contenuto offerto, cioè quella tipologia di letteratura che rientra nella galassia dell’avventura e dell’evasione, che si autodefinisce un prodotto strettamente adolescenziale e confinato a un target ridotto, capace di assorbire e recepire letture scolastiche che non lo includeranno più negli anni a venire, dato che era considerato antiquato a livello linguistico, troppo ancorato all’Ottocento.

Non possiamo ignorare che l’usura, la prolissità o la complessità del linguaggio ottocentesco sono per lo più presenti nella prosa in questione, infatti, lo studioso Pietro Genesini ha sostenuto che, a dispetto dei grandi paesi europei del tempo Francia, Inghilterra, Germania, l’Italia al tempo di Salgari non aveva ancora un’unità linguistica, rimanendo compromessa da grandi fasce di analfabetismo o semianalfabetismo e presentando in tal modo un mercato di potenziali lettori-acquirenti piuttosto limitato (Genesini, 2013). Per tali motivazioni lo scrittore veronese, al di là della triste vicenda editoriale che lo afflisse, non sarebbe mai divenuto ricco o comunque non avrebbe avuto un riconoscimento letterario di livello accompagnato a uno status symbol, capace anche di tutelare e preservare la sua importante opera narrativa; e la situazione imperante rimarrà immutata sino al completo exploit del boom che trasformerà l’Italia in uno dei paesi più industrializzati del mondo.

“Uno scrittore deve prendere atto di ciò e fare le sue scelte” lo ha ricordato Petronio nella sua opera monumentale L’attività letteraria in Italia che aggiungeva: “alcune volte pertanto [l’autore] non ha scelta, perché la sua cultura e il suo gusto combaciano con quelli di una parte del pubblico, e quindi l’incontro è naturale: può essere il caso per esempio di Carolina Invernizio, con il suo realismo popolareggiante, o di Emilio Salgari, autore fecondissimo di libri di viaggi e di avventure” (Petronio, 1991). A pensarci bene, tutti i romanzieri ottocenteschi, eccezion fatta per Collodi e il suo capolavoro, sono stati totalmente (o volutamente) dimenticati: Salgari, poi, nel caso specifico è uno scrittore che non ha dietro di sé una tradizione prosastica di lungo corso e dalla quale ha potuto riprendere gli aspetti essenziali della sua poetica; semplicemente non esisteva nulla di simile: il suo viaggio narrativo è un viaggio solitario.

E fin da ragazzo Salgari sognò i viaggi per mare e migliaia di avventure nelle terre esotiche delle quali subiva un fascino spropositato, avendo a disposizione, come un comune mortale, il materiale cartografico che cominciava a circolare da circa un trentennio (il  primo prototipo dei grandi atlanti moderni è l’Atlante Stieler del 1830, succeduto dall’Atlante fisico di Ermanno Berghaus del ’38). Quelle che furono da lui descritte erano terre incontaminate per le quali si rilevò indispensabile una base geografica d’appoggio che costituisse almeno una rappresentazione primaria dei luoghi: la materia narrativa nasce, cresce si avviluppa allo spazio geografico; ecco perché Salgari valorizza l’importanza della rappresentazione cartografica della terra e di come questa sia stato benefico alimento della sua fervente immaginazione, dato che con solida autorevolezza geografica è riuscito a costruire le popolazioni, gli insediamenti, le comunicazioni e gli spostamenti delle giungle tropicali, dei deserti africani, delle pianure americane, dei territori del mondo che si affacciavano alla globalizzazione per poter innestare un’altrettanta geografia dei sentimenti umani. A questa passione si aggiunse un’attività narrativa il cui primo vagito era giornalistico.

Nel passaggio tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento una serie di risvolti economici e sociologici, mai riscontrati in precedenza, interessano il panorama italiano: c’è un aumento degli scrittori e proporzionalmente delle persone impiegate nello scrivere; crescono le tirature; la produzione si articola e si differenzia; si constata anche lo sviluppo del giornalismo, nasce la prima critica letteraria e teatrale; e quindi la possibilità di unire l’attività letteraria creatrice a quella giornalistica; possibilità in sostanza di vivere grazie agli introiti derivanti dal lavoro letterario. Ed Emilio Salgari avviò la sua carriera proprio da un racconto; il primo ebbe il titolo de I selvaggi della Papuasia e fu pubblicato nel 1883 sul periodico La valigia di Milano.

La vicenda ripercorre l’avventuroso e tragico viaggio del brigantino olandese Haarlem,capitanato da Wan Nordhom e dal suo secondo inseparabile Asten, verso le coste della Nuova Zelanda. L’occasione dei festeggiamenti in onore del capitano si trasforma in un incubo, perché il brigantino a causa dell’euforia dei festeggiamenti rimane incagliato su un banco di sabbia: l’occasione diventa propizia per una sessantina di indigeni, i quali fuoriusciti da un fiumicello, a bordo di piccole piroghe, si avventano contro l’equipaggio e ingaggiano un’aspra battaglia; dallo scontro tra bianchi e papuasi riesce a salvarsi miracolosamente il capitano Wan Nordhom, che ritorna sano e salvo prima a casa, e in seguito a svolgere l’attività di uomo d’affari.

Il racconto, seppur breve e molto scorrevole, è interessante perché offre alcuni spunti che diventeranno caratteristiche basilari della narrazione salgariana articolata in romanzi e racconti. Tra i più rilevanti ne offro un piccolo numero anche per la loro continua ciclicità che ritroveremo nelle dinamiche narrative salgariane (espediente molto comune negli scrittori che spesso preventivano un numero totale di cartelle per il soldo, si veda il buon Dumas). Credo pertanto opportuno citare: la chiarificazione lemmatica (si badi all’incipit del romano dove scorgiamo una definizione della farina di segù); la costruzione del diario di bordo (la descrizione degli usi e dei costumi dei marinai del tempo: troviamo frequentemente la menzione dei giorni e delle prestazioni svolte il 3 luglio; il 9 e il 13 l’Haarlem era giunto a Mortay, isola magnifica del gruppo delle Malucche, situata all’estremità nord-est di Gilolo, qui l’informazione è combinata alla descrizione geografica, come se Salgari avesse dinnanzi le carte nautiche); poi l’utilizzo di un lessico globale (i commerci sono documentati seguendo i movimenti dei traffici intercontinentali ottocenteschi); la contrapposizione tra mondo conosciuto e mondo ignoto (si veda la descrizione dello scontro della battaglia, la tensione che domina l’evento e la suspence che vede progressivamente avvicinarsi ai cannibali papuasi).

Si potrebbe obiettare che questa prosa non nasce preventivando una ricca decantazione culturale; in realtà risponderei a questa obiezione sostenendo che la prosa salgariana è una scrittura che ha bisogno di sopperire alla mancanza di esperienza, all’assenza di visione, e che unisce, cementificandole, nozioni naturalistiche e geografiche per disegnare nell’itinerario mentale dei luoghi che senza le carte non sarebbero esistiti. Troverei ingiusto, pertanto, considerare la prosa salgariana come un prodotto creato a tavolino e quelle stantie definizioni, le ripetizioni, le discordanze sparse in romanzi, che spesso si aprono e si comprimono con una fisarmonica, sono in realtà l’anello di congiunzione per capire l’intima anima dell’autore. Esse nascondono, lo vedremo nei più grandi romanzi: i barbagli del sogno, l’evasione nel senso più puro del termine, la volontà di restituire una verità tanto storica quanto geografica nella varietà armonica del suo essere in fusione con la natura e tale da percepire il senso della fame, se i marinai piluccano biscotti; da sentire le loro ubbie, se questi alzano gli occhi al cielo e imprecano contro le tempeste; o da vedere il fitto intreccio delle liane o delle più incredibili piante terrestri dalla magnificenza incredibile.

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