La mancanza di senso critico è il coacervo di tutti i mali

Articolo di Alberto Maccagno

In un paese preso in ostaggio da trent’anni e più di vuoto culturale c’è da porsi varie domande per far luce sulla scena del crimine. Chi sia stato il mandante della strage, chi l’esecutore materiale, quale il mezzo. Mentre sui primi due quesiti si possono sollevare opinioni divergenti e più o meno partitiche, la terza domanda trova risposta nell’identificazione di un parametro assassino che ha assunto il ruolo circolare e ubiquo di causa e di effetto della morte culturale di questo paese: la mancanza di senso critico. Per rendere il discorso più incisivo e comprensibile a tutti, limiteremo l’invettiva all’ambito discografico-musicale, seppur si potrebbe parlare ore della drammatica deriva post-panettonistica del cinema nostrano, dell’instupidimento costante del concetto di comicità (vedi la triste parabola Zelig – Colorado – Only Fun), della morte della satira politica e sociale e del decadimento contenutistico nei mass media, schiavi di trasmissioni vuote e tendenzialmente anacronistiche.

Ma torniamo a noi, alla musica e al mercato discografico. In questo, ovviamente, vi sono colpe condivise tra artisti, etichette e giornalisti/opinionisti del settore. Purtroppo, le responsabilità pesano anche su un pubblico che gioca a fare il carnefice senza riconoscere il proprio ruolo di vittima. Se decidessimo di prendere in esame la musica di più ampia diffusione, specialmente tra i giovani e giovanissimi, ci troveremmo a selezionare solamente due generi: il rap, e più nello specifico la trap, e la cosiddetta musica indie. In questi è doveroso sottolineare quanto entrambi, specialmente il secondo, in seguito a una scossa di alta magnitudo registrata tra l’anno 2015 e il 2016, si siano presto assestati nei margini della musica pop, annullando le proprie velleità rivoluzionarie e mostrando i veri colori di questi movimenti, ossia la volontà di perpetrare un golpe al mondo del pop con l’obbiettivo di sostituirne gli interpreti ma non la natura. Basti pensare ad artisti come Gazzelle, Tommaso Paradiso, Mobrici e Carl Brave per quanto concerne il mondo “indipendente” e Sfera Ebbasta, Ghali, Tedua, Rkomi e alcuni membri della Dark Polo Gang (specialmente Dylan e Wayne Santana) nell’ambiente trap.

Tra questi non possiamo non sottolineare le linee politiche di minor contaminazione perseguite da artisti come Calcutta o Contessa, più fedeli alle premesse artistiche degli ambienti da cui derivano. Ovviamente, queste colpe sono condivise con le etichette discografiche che hanno prodotto e distribuito le loro opere, le quali, come saggiamente fatto notare da Enrico Silvestrin anche nella sua ospitata al Cerbero Podcast, hanno sempre ragionato da major, ricercando spasmodicamente nomi vendibili sul mercato a discapito di quello che apparentemente potesse sembrare un moto ribelle. Maciste Dischi e Foolica Records sono tra i primi nomi che sopraggiungono alla memoria come colpevoli di questa scelta. E così alle etichette principali è bastato aspettare, lasciare che i cicli facessero il dovuto corso così da poter azzannare la preda al momento opportuno, eliminando qualsivoglia attività di scouting e limitandosi a massimizzare i profitti sul lavoro dei piccoli. Passiamo invece ai giornalisti-opinionisti-commentatori-(casi) critici e selezionatori.

Se si tolgono da questa equazione il prima citato Enrico Silvestrin e Alberto Maccagno de Il Salto Della Quaglia (dai che scherzo), ci si rende conto di essere circondati da una situazione di incredibile pochezza, priva di alcuna spinta verso un reale miglioramento. I vecchi della critica come Assante, Castaldo, Mollica e molti altri hanno deposto definitivamente l’ascia di guerra, limitandosi a compitini editoriali tanto insensati quanto inutili in cui si descrivono eventi come il Jova Beach Party al pari di un novello Woodstock e dove non c’è mai spazio nemmeno per le proposte internazionali delle classifiche Billboard (ossia il mainstream più mainstream), restando ancorati a un mondo fatto di Vasco Rossi, Ligabue e poco altro. A questo non-lavoro si affiancano, di tanto in tanto, eventi per parlare nuovamente delle mitiche carriere di Lucio Battisti e John Lennon a cui solitamente assiste un pubblico che è già fan e contemporaneo di questi artisti, rendendo il tutto più nostalgico che didattico.

Da tutto ciò non sono esenti i selezionatori delle radio, i creatori delle playlist e gli speaker, asserviti anche quando non vi sarebbe la necessità a una logica di programmazione voluta dal mainstream e dal camaleontico pubblico della musica ipercommerciale, il quale concepisce l’ascolto di un brano come passivo, come un sottofondo da macchina nella tratta casa-lavoro e lavoro-casa. E se dalle radio di regime, ossia Radio Italia, RTL, Radio 105 ecc., non ci si aspetta nulla, uno sforzo superiore lo si gradirebbe da quelle stazioni che invece affermano, per non dire millantano, di voler veicolare una produzione alternativa, quindi Virgin Radio (che sta ancora passando November Rain spiegata da Ringo e Layla raccontata da Paola Maugeri), Radiofreccia e, per certi versi, anche Zeta. Per assurdo, il buon vecchio Red Ronnie tra una tisana vegana alle bacche di Giove e un nuovo copricapo di carta stagnola, fa più di loro per la musica indipendente nostrana. Ed è tutto dire.

E così anche sui social, dove il mondo delle reaction porta personaggi spesso privi di qualunque profondità di ascolto a dire la propria su tutto, al di là di alcuni nomi più preparati e qualificati come gli Arcade Boyz. Concludiamo col pubblico, ossia il ruolo più complesso di questa nostra analisi. Vittima o colpevole? Difficile a dirsi, tuttavia non possiamo ignorare svariati aspetti della fruizione musicale. Il pubblico più giovane ha un rapporto di grande svalutazione nei confronti dell’arte in quanto ne usufruisce sostanzialmente e/o effettivamente in modo gratuito grazie a piattaforme di streaming che o paga poco o, spesso, non paga proprio. Il non pagare la musica sommato a tutte le cause precedentemente elencate porta a un senso di deprezzamento di ciò di cui si sta facendo uso, rendendo meno selettivi e, di conseguenza, meno esigenti. Le derive di questa mentalità portano a considerare Blanco e Thasup degli innovatori solo perché hanno il singhiozzo.

Dall’altra parte della barricata, il pubblico più maturo (o anziano) continua a propinare un approccio snob all’ascolto musicale, ancorandosi a una visione del mondo passato-centrica che vede ancora i The Who, i Led Zeppelin e i Pink Floyd come il centro di un universo che non si è mai evoluto e che l’ultimo contatto con la musica più vicina ai giorni nostri lo ha avuto nel 1991 con Smells Like Teen Spirits. Un impero romano tramontato almeno trent’anni fa. Il centro di una possibile rivoluzione culturale sta nella necessità attiva di tornare a cercare la musica (e non solo) non cambiandone i metodi di ascolto e fruizione ma usandoli a vantaggio dei propri intenti di diffusione e divulgazione, creando una vera e propria alternativa al mondo del mainstream, che spesso viene confuso per un underground che non è, non cancellando la proposta principale ma affiancandovisi in parellelo costituendo una corrente di risposta che sia forte e rinconoscibile.

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