Covid, ricordi di un tempo lontano

Articolo di Elisa Rebughini

21 Febbraio 2020, un giorno come tanti, di un anno -bisestile- come tanti.
Ci si alza, ci si pettina, si esce e si va al bar, diceva qualcuno.
Quattro anni fa, tondi.
Nel mezzo storie, ricordi, vita vissuta, paura, disperazione, speranza, rabbia, tristezza, cattiveria, paura, paura, paura. Rinascita.
Il paziente zero, Codogno, la Cina, il virus. Le mascherine inesistenti, devo scendere a buttare la spazzatura, metto la sciarpa. Hai un guanto? Non toccare niente. L’alcool etilico come l’oro.

Salviette disinfettanti, la tv accesa sempre alla stessa ora, il bollettino serale. Un morto, il primo. Due, tre, dieci.
Le case di riposo, state tutti a casa. Non andate a lavorare, moriremo di fame.
Lavorate da casa. I pc? Per ora comprateveli, poi vediamo. Chiudete i bar, i ristoranti, i cinema, chiudete tutto. Si muore.
Le bare, Bergamo. State attenti ai genitori, alle persone anziane, ai fragili. La didattica a distanza.

Ma noi chi siamo per farci buttare giù così? Il lievito di birra, le penne lisce. Chili di pane, focaccia e pizza, ogni giorno sperimento una ricetta nuova. La coda per fare la spesa, ma almeno esco. La spesa online, di notte per trovare uno slot libero, la consegna è tra due settimane, chissà se ci ricordiamo cosa abbiamo comprato. Internet un alleato, oro. Lo smart working di massa, gli spettacoli teatrali integrali gratis, per tutti. Il Globe. I solstizi in diretta da Stonehenge. Dobbiamo stare soli, ma possiamo essere connessi. Gli aperitivi online, le pause caffè, le partite di trivial (falsato). Le cene (di compleanno) in collegamento su skype, le consegne dei ristoranti con i proprietari che arrivano sotto casa con lo scooter, questo scaldalo così, solo 5 minuti nel forno, questo invece ripassalo in padella. Ti ho portato anche uno dei miei vini migliori. E grazie per il supporto.

Il gelato – come fai a sopravvivere a un lockdown senza gelato? – sul divano guardando Magica Emi.
Le lezioni online, la ginnastica a casa, la cyclette. Gli animali che si riappropriano della loro libertà, escono, camminano lungo le strade deserte. Il silenzio surreale, surreale. Si sente solo l’acqua che sgorga dalle fontanelle del centro, nient’altro. Certo, escludendo le sirene dei soccorsi, sempre presenti. I canti di gruppo dai balconi dei condomini, il cuore che si stringe.

No, non potete vederlo, mi dispiace. Non potete neanche portare i vestiti che aveva scelto, mi dispiace. Sarà chiuso in un sacco di plastica prima che lo portino via quelli dell’impresa. Mi dispiace, davvero, ma sono le regole, non si può rischiare. No, davvero, non potete vederlo, non potete salutarlo.

Mi dispiace.
Andrà tutto bene, ne usciremo migliori.

I vaccini, i tamponi. Prendi l’appuntamento, la prima dose, la seconda, la terza. Io non mi inietto quello schifo, beh, quindi ti farai i tamponi, ma guarda che si pagano, è un complotto. Io mi vaccino, voglio essere libera e sicura. E se c’è un rischio lo voglio correre. Voglio tornare a vivere. E quando tornerò là fuori, stai sicuro che di questi giorni, mesi, anni, non mi scorderò neanche un istante. Voglio tornare ad abbracciare la gente a cui voglio bene, ma solo quella. Non li regalo più i miei abbracci a tutti, non posso. Non posso dopo aver visto quanto è prezioso un abbraccio.
Un abbraccio, quattro anni. Un istante, un’eternità.

Ci si lava, ci si pettina. Si esce e si va al bar. Si scansano i cadaveri.
Non ci fai neanche più caso.
Ci si abitua così presto.
In fondo ne muoiono tanti anche al weekend di ferragosto.

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