“L’albero degli zoccoli”, un capolavoro irripetibile

Articolo di Gordiano Lupi

Ho rivisto L’albero degli zoccoli grazie a Rai Storia, che di tanto in tanto ripropone qualche capolavoro del passato e lo manda in onda senza interruzioni pubblicitarie, in questo caso scelta benemerita perché il film dura ben 186 minuti, non è di facile comprensione ed è recitato da attori non professionisti che si esprimono in un dialetto bergamasco, in ogni caso abbastanza decifrabile. Ermanno Olmi torna alle sue radici, realizza uno spaccato di vita contadina di fine secolo, intriso di religiosità e di compassione, racconta il mondo dove è nato e vissuto, lo fa con grande poesia e un pizzico di nostalgia. L’albero degli zoccoli vince la Palma d’Oro a Cannes, è sicuramente il suo miglior film, il più vero e sentito, quello che rappresenta uno spartiacque tra la prima produzione documentaristico – sperimentale e le opere della maturità. Tra i cento film italiani da salvare, irrinunciabile la visione per un esperto di cinema ma anche soltanto per un appassionato. La struttura è quella del film a episodi, mescolati tra loro, senza soluzione di continuità, intersecando le vicissitudini di quattro famiglie che popolano la cascina di Palosco. Siamo nel 1898, la ricostruzione di ambienti è perfetta, così come i costumi sono curati in maniera certosina, la vita dei campi è descritta dal primo albeggiare al momento di coricarsi, come un’esistenza povera, dove si mangia polenta con il latte e pane di granturco, si fatica a mandare un figlio a scuola e si taglia un albero per rifare gli zoccoli distrutti a un bambino che non sa come percorrere sei chilometri dalla cascina al paese. La vita nei campi, il rapporto con il padrone e con il fattore, la preghiera, la grande religiosità, i momenti di condivisione, lo scartocciamento del mais, la malattia di una mucca da latte che potrebbe portare carestia, i miracoli (veri o sognati), i pomodori coltivati in segreto e portati al mercato, le fiabe e i proverbi popolari raccontati al focolare. Molto intensa una storia d’amore che giunge a coronamento dopo un timido corteggiamento nei campi e gli incontri al cascinale, con un matrimonio di primo mattino e il viaggio a Milano (in battello) – con l’esercito di Bava Beccaris che sta reprimendo una protesta – da una zia suora dove la coppia adotta un trovatello. Un bambino in dono dalle suore è un segno di benevolenza divina e porta alla povera famiglia anche un po’ di denaro e di dote materiale per il sostentamento e la cura del piccolo. Troviamo anche una famiglia litigiosa al cascinale dove padre e figlio spesso si picchiano e discutono, fino alla malattia del padre che perde una moneta d’oro che aveva trovato e nascosto nello zoccolo di un cavallo. L’episodio che dà il titolo al film è quello del bambino costretto a fare una lunga strada a piedi per andare a scuola (su consiglio del prete), ma la sua famiglia fa una brutta fine, viene cacciata dal padrone perché il padre ha tagliato un albero per fare gli zoccoli al figlio. Olmi fa quasi tutto da solo, dalla sceneggiatura – che proviene da un suo soggetto e che in parte è la sua vita e si compone dei ricordi della nonna – alla stupenda fotografia della bassa pianura bergamasca, dove viene girato il film. Formato quadrato, abbastanza insolito; persino il montaggio compassato è curato da Olmi, convinto (come Fellini e Brass) che sia un momento essenziale della regia. Quando la finzione dice che siamo a Milano, in realtà la macchina da presa inquadra Treviglio. Effetti speciali invernali a base di neve finta, ché il film viene girato da febbraio a maggio, quando la neve si è sciolta da tempo. Colonna sonora molto classica scelta dal regista per accompagnare la vita dei campi, un mix di brani di Mozart e Bach (eseguiti all’organo da Fernando Germani) e di canzoni popolari contadine. Molte scene del film sono violente, ma rappresentano la vita della campagna, come lo squartamento di un maiale o la decapitazione di un’oca, così come compaiono alcune nudità di ragazzini, brevi sequenze che nel contesto risultano essenziali, ma che in alcuni paesi hanno prodotto divieti ai minori di anni 16.  Ermanno Olmi gira un capolavoro irripetibile, filma neorealisticamente la vita dei contadini bergamaschi, li pedina nel quotidiano con una macchina da presa velata di nostalgia, cosa che non guasta, e intrisa di poesia.

Regia, Soggetto, Sceneggiatura, Fotografia, Montaggio, Produzione: Ermanno Olmi. Musiche: Bach, Mozart, eseguite da Fernando Germani. Scenografia: Franco Gambarana. Costumi: Francesca Zucchelli. Trucco: Giuliana De Carli. Case di Produzione: Rai, Italnoleggio Cinematografico. Distribuzione (Italia): Italnoleggio Cinematografico. Lingua Originale: Bergamasco. Paese di Produzione: Italia, 1978. Durata: 186’. Dati Tecnici: Gevacolor; rapporto 1.33.1 (formato quadrato). Interpreti: Luigi Ornaghi (Batistì), Francesca Moriggi (Batistina), Omar Brignoli (Menec), Antonio Ferrari (Tunì), Teresa Brescianni (vedova Runc), Giuseppe Brignoli (nonno Anselmo), Carlo Rota (Peppino), Pasqualina Brolis (Teresina), Massimo Fratus (Pierino), Francesca Villa (Annetta), Maria Grazia Caroli (Bettina), Battistina Trevaini (Finard), Giuseppina Sangaletti (moglie del Finard), Lorenzo Pedroni (nonno Finard), Felice Cervi (Ustì), Pierangelo Bertoli (Secondo), Brunella Migliacco (Olga), Giacomo Cavallari (Brena), Lorenzo Frigeni (moglie di Brena), Lucia Pezzoli (Maddalena), Franco Pilenga (Stefano), Guglielmo Badoni (padre dello sposo), Laura Locatelli (madre dello sposo), Carmelo Silva (don Carlo), Mario Brignoli (padrone), Emilio Pedroni (fattore), Vittorio Capelli (Frikì), Francesca Bassurini (suor Maria), Lina Ricci (donna del segno).

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