I poteri sono “senza” controllo?

Articolo di Massimo Rossi

La domanda può sembrare irriverente e (quasi) improponibile. Il potere se è senza controllo è arbitrario, è dispotico. L’arbitrio è inaccettabile in democrazia. Non è solo inaccettabile perché è qualcosa di iniquo, ma è un “virus” che colpisce la società civile nei suoi principali e fondamentali gangli. Il potere, in un sistema democratico, deve essere sottoposto a controllo. Noi riteniamo che questo controllo, in via normativa sui poteri, vi sia. Ma resta da capire di che grado ed in quale forma.Il potere senza controllo, oltre a non essere espressione di democrazia, è fonte di iniquità e differenze che se lasciate libere formano quel malcontento sociale che genera (o può generare) la illegalità diffusa. Il potere senza controllo porta al dispotismo e al populismo dispotico.

Il potere giudiziario: la Magistratura

La nota tripartizione dei poteri di Montesquieu si rispecchia nella realtà delle democrazie attuali. La tripartizione è rappresentata dal potere legislativo, dal potere esecutivo e dal potere giudiziario. Solo una alchimia ed un equilibrio tra gli stessi poteri consente uno sviluppo armonico della democrazia rappresentata dalla partecipazione del popolo all’esercizio di ogni “potere”. Il potere giudiziario è autonomo e svincolato dagli altri due poteri (legislativo ed esecutivo). Opera esclusivamente attraverso la applicazione della legge che è demandata a soggetti che sono “prescelti” con concorso pubblico, che sono selezionati per competenze e capacità e che, pur essendo soggetti interni alla amministrazione dello Stato sono un potere indipendente che risponde ad un organo costituzionale che è il Consiglio Superiore della Magistratura (organo che ha una composizione mista). I magistrati sono scelti tra i laureati in legge e devono superare un concorso pubblico molto selettivo e, quindi, all’esito di tale concorso vengono individuati i migliori giuristi.

Fin qui tutto bene e tutto chiaro. Fin qui (anche) tutto molto teorico. I magistrati vengono (dopo la selezione) assegnati alle varie sedi, secondo la graduatoria che si è formata e (talvolta) secondo le attitudini (non tanto “dimostrate”, ma “desiderate”) dal soggetto interessato. Vengono fatti passare da un periodo di “praticantato” e poi gettati nell’agone giudiziario. Tutto quanto senza una “specializzazione” di alcun genere e senza una separazione delle carriere. Noi – ma sappiamo di essere in minoranza – riteniamo più grave la prima che la seconda problematica. La mancanza di specializzazione crea un magistrato “tuttologo” che, in verità (almeno all’inizio), è praticamente impossibile ed è foriero di gravi errori con ripercussioni sulla collettività. Sulla specializzazione dovrebbero essere per primi i magistrati a battersi poiché se un concorso può selezionare i migliori “magistrati” in senso tecnico non è detto che il bravo (se non, addirittura, ottimo) giurista sappia svolgere il ruolo di giudicante piuttosto che quello di inquirente.

Qui si entra in una annosa questione per la quale il “vero” magistrato deve avere la piena conoscenza del ruolo giudicante e del ruolo inquirente. Ma ciò sacrifica le attitudini e, soprattutto, la specializzazione che in una realtà iper-specializzata fa, veramente, specie che il mondo giudiziario (e qui coinvolgo anche l’avvocatura) non voglia “specializzarsi”. Riteniamo che ci si debba specializzare sia rispetto al ruolo sia esso giudicante sia esso requirente e ci si debba specializzare (per il ruolo requirente) in base a materie ben individuate. Peraltro, in alcuni settori, occorrono conoscenze di ordine psicologico che riguardano i reati contro le vittime fragili. La preparazione e la conoscenza devono correre di pari passo con l’empatia (del tutto soggettiva) e la psicologia (branca di studio, praticamente, ignorata dal mondo giudiziario). So benissimo che sono temi ostici da mandare giù e che i giuristi “puri” guardano con sospetto. La magistratura (in certi casi) non ama essere contraddetta e non ama sapere che occorre un aggiornamento che passa non solo dalle leggi e dalle sentenze, ma anche da approcci culturali a fenomeni sociali.

La magistratura non è (e non deve essere) un potere avulso dalla società. Deve riuscire ad interpretare quelle particolarità e specificità che la società esprime. Non deve essere solo valutativa e repressiva, ma svolgere nel diritto quella funzione di direzione nella legalità. Non fare morale ed etica, ma esprimere quella nomofilachia delle leggi che restituisce il senso più alto della magistratura. Occorre qualità e capacità unite ad onestà, libertà ed indipendenza. Ma qualità e capacità ve ne sono, ma per causa proprio di una “gestione” interna talvolta vengono “mozzate le ali” proprio ai più capaci. Appare fin troppo facile il riferimento a quanto il CSM fece al Dott. Giovanni Falcone che avrebbe dovuto rivestire il ruolo di Procuratore Antimafia Nazionale e fu bersagliato a tal punto che nemmeno divenne Procuratore Capo della Procura di Palermo. Solo un illuminato Ministro della Giustizia quale l’On. Claudio Martelli lo portò a Roma al Ministero.

Senza scordare questo esempio di totale inefficienza del CSM (se non anche di altro) basta fare riferimento a quanto accaduto con il “Caso Palamara”. E qui veniamo all’oggi ed al punto di questa nostra riflessione. Il CSM in questa composizione e con questo sistema di “reclutamento” è organo idoneo a tutelare il prestigio , l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura? Riteniamo che il CSM (purtroppo) abbia dato nella vicenda “Palamara” ampia prova di totale incapacità di reagire a quanto accaduto al proprio interno. La vicenda sollevata dalle indagini di Perugia al netto delle difese penali dei singoli soggetti (ma ci sembra che alla fine a “pagare” sia stato il solo Dott. Luca Palamara) hanno mostrato il “progetto” di direzione, di cooptazione dei ruoli e delle persone che erano scelti per ricoprirli che non aveva nulla a che fare con merito, il curriculum e le capacità del singolo, ma si appoggiava ad una “frequentazione” di certe persone e di certi soggetti (politici ed altro) e di certi luoghi piuttosto che altri.

A fronte di tutto ciò, però, la risposta del CSM (che avrebbe dovuto dimettersi in blocco, vista la grave situazione) è stata solo accanirsi nei confronti del Dott. Luca Palamara che, per certo non può essere ritenuto l’unico artefice di tutto quanto disvelato dalle indagini. La risposta del CSM (organo di autogoverno dei magistrati) è stato tanto inadeguato quanto, addirittura, controproducente. Da tale ultima vicenda dobbiamo trarre delle necessarie conseguenze. Se a fronte delle prove di “aggiustamenti” sulle nomine (guarda caso di Procure) il CSM non ha svolto il ruolo disciplinare (se non verso il dott. Palamara) è evidente che siamo di fronte a qualcosa che è fuori dal sistema. Siamo di fronte ad un organo che è incapace di svolgere una azione di “ripulitura” di se stesso e di piena “rigenerazione”. Non vi è dubbio che lasciare il potere disciplinare in mano al CSM, ad oggi, con quanto abbiamo potuto osservare appare molto inadeguato se non del tutto inopportuno e deleterio per i magistrati stessi. Ritengo sbagliato che gli avvocati possano “giudicare” i magistrati lo dico subito, ma ritengo poco credibile un sistema nel quale i magistrati giudichino loro stessi rispetto a condotte deontologicamente scorrette o peggio, penalmente rilevanti.

Pertanto, occorre ripensare ad un organo, nel quale il potere disciplinare possa passare in mano a soggetti esterni alla magistratura ed avulsi da quel contesto. Nessuno può giudicare se stesso, nemmeno i magistrati. Ripensare non vuol dire sconvolgere, ma riformare un sistema che, ormai, in più occasioni ed in tempi diversi, ha dato evidenti segni di cedimento in molti livelli. Aggravato tutto ciò, peraltro, da un ruolo molto significativo delle correnti (che può essere eliminato con il sistema di sorteggio dei candidati al CSM) e dal ruolo “legislativo” della corporazione ANM. Il ruolo politico dei magistrati che ne dicano i diretti interessati è il profilo che fa caducare proprio il loro ruolo di “guardiani” della legge. La questione porterebbe lontano, ma vi è una verità assoluta che non teme confronti: la politicizzazione della Magistratura è un male perché fa entrare nelle aule di Giustizia le ideologie, mentre devono albergare solo le leggi e le sentenze di legittimità. Nessuno vuole impedire al magistrato di avere una idea politica, ma deve tenerla per se.

Nessuno vuole limitare l’attività politica attiva o passiva, ma in questo caso deve uscire dalla Magistratura e non svolgere ruoli politici e poi rientrare come se vi fossero “porte girevoli”. Se si è parte di un potere dello Stato si deve essere coerenti e non si può fare l’altalena con il paracadute e la rete. Nessuno vieta ai magistrati di fare politica, ma non possono poi rientrare a fare i magistrati: devono scegliere. Stessa questione che è di grande rilevanza sono i ruoli ministeriali di taluni magistrati. Riteniamo che anche questi ruoli devono essere molto contenuti e riservati a magistrati con grande esperienze ed a fine carriera. Nella pratica, però, non è così. I magistrati fuori ruolo perché impegnati in incarichi ministeriali sono molti (anche molto competenti) e ciò toglie i migliori dalle aule di giustizia e dalle stanze delle Procure; luoghi di elezione di costoro. Ma quello che preoccupa di più è che la magistratura che vuole incidere sulle leggi (vedi le volte in cui ANM fa fronte a riforme), la magistratura che con le porte girevoli fa parte della politica (Parlamento – Governo), la magistratura assegnata a ruoli ministeriali crea un “vulnus” ampio nella tripartizione dei poteri e crea uno stato di “agitazione” rispetto alla vicenda complessiva.

La magistratura, per certi versi, è un “potere fuori controllo” perché (e vi sono prove concrete) crede di poter essere autoreferenziale. La deriva della politica poi fa il resto e lascia margini di interfaccia alle associazioni della Magistratura organizzata che interferiscono con l’attività parlamentare e con quella di governo. La necessità di una nuova modulazione dei ruoli ed una riforma al CSM appare di primaria rilevanza e necessità. Unitamente a ciò, più che pensare alla separazione delle carriere occorre convincere la magistratura ad una reale e concreta specializzazione sia dei ruoli sia delle competenze. Tutto ciò (come per l’avvocatura del resto) è da sempre lasciato alla coscienza del singolo che nella stragrande maggioranza da ottimi risultati, ma è inaccettabile che sia rimessa al singolo e non sia organizzata in modo compiuto, organico e trasparente, sebbene, per la verità, vi siano serie ed organizzate iniziative di aggiornamento. Sulla riforma – è inutile girarci intorno – pende il giudizio, fortemente, critico di ANM che, però, è e resta una “sigla sindacale” e non altro, ma che ha un ruolo politico molto significativo. Ruolo politico che promana dai magistrati di livello e di spessore che l’hanno da sempre guidata e che (non credo sia un caso) sono tutti (o quasi) magistrati inquirenti (Procuratori). Le riforme si fanno in modo condiviso, ma resta al Parlamento ed al Governo il compito di riformare e non alle associazioni sindacali, sebbene, esse siano, di grande rilievo pubblico.

Il potere politico: il Parlamento.

La nostra Repubblica è definita dalla Carta costituzionale una Repubblica parlamentare. Il Parlamento è formato da due camere: la Camera dei Deputati ed il Senato della Repubblica. Il Parlamento viene eletto con libere elezioni ogni 5 anni (o tempi più brevi se le Camere vengono sciolte prima) ed è composto dai rappresentanti del popolo. Gli eletti vengono accreditati dalla Commissione elettorale presente nei due rami del Parlamento e non hanno vincolo di mandato. I soggetti vengono candidati dai partiti politici secondo una lista elettorale, quindi, sono proposti in modo “autoritario” dai partiti. E questo è il primo problema. Se il candidato eletto dal popolo non ha vincolo di mandato non può avere vincolo di “partito”. Il soggetto eletto è rappresentante del popolo, in modo indistinto e fa parte del Parlamento che ha due funzioni decisive: il redigere le leggi e presentarle all’assemblea di appartenenza e controllare l’attività del governo. E qui sussiste il secondo problema, più serio e grave del primo. Il nostro Parlamento è (quasi) incapace di legiferare progetti di legge, disegni di legge che vengono proposti dai singoli parlamentari (o gruppi), ma discute (nelle commissioni e nell’aula) quasi esclusivamente leggi che promanano da iniziative del Governo. Appare ovvio, in modo scolastico che se il Parlamento si dedica essenzialmente a valutare, modificare (del caso) ed approvare progetti di “leggi” che provengono dal Governo viene svilita in un solo colpo sia la funzione di controllo del Parlamento sul Governo sia la funzione (principale) di fare le leggi.

Insomma, specie negli ultimi 20/25 anni questa deriva e questa stortura nel sistema si è fatta più acuta e più seria. Potremmo affermare che con le ultime legislature dal 2018 in poi si sta assistendo ad una sostanziale “inattività” del Parlamento, come organo che scrive e propone leggi e si è assistito alla sua trasformazione in un mero “notaio” capace di approvare solo (o quasi) provvedimenti legislativi del Governo. È ovvio che il Governo è sostenuto dalla maggioranza parlamentare, ma è anche vero che l’iniziativa governativa deve sempre essere oggetto di valutazione, monitoraggio e (se necessario) critica, seppur costruttiva. Altra situazione che ancora il Parlamento alle segreterie di partito è il ricorso da un lato alla decretazione d’urgenza con una frequenza esorbitante che, in verità (molto spesso), viola lo stesso tessuto legislativo della Carta Costituzionale. Sempre con una maggiore accentuazione negli ultimi 10/15 anni si è assistito ad una decretazione d’urgenza che non solo non è parametrata a quanto previsto in Costituzione, ma che risponde (con grande frequenza) a situazioni contingenti sicuramente gravi e di allarme sociale, ma che a stretto rigore costituzionale non comporterebbero un decreto legge. Si sono allentati tutti i sistemi di controllo.

Tale attività svolta in modo continuativo e strutturale snatura, in modo irreparabile, proprio il ruolo del Parlamento che, invece, è il baluardo della democrazia. Se i parlamentari sono “imposti” dalle segreterie di partito e se il Parlamento, in verità, fa solo una attività di mero “sdoganamento” dei provvedimenti legislativi di derivazione governativa, si arriva al pratico risultato che il parlamentare non controlla l’azione governativa, non la verifica, ma la approva, risponde così facendo alle impostazioni e prerogative del governo (ergo delle segreterie di partito della coalizione governativa). Questo – e non abbiamo timori di smentita – è quanto si verifica in modo pratico e ciò mina il tessuto della Costituzione reale. Si badi bene che tale atteggiamento è comune sia al centrodestra sia al centrosinistra; non vi sono differenze politiche. Non è qualcosa che è patrimonio di una parte politica piuttosto che di un’altra. La distorsione dal sistema è propria al sistema politico in se che ha visto nelle segreterie di partito e nel protagonismo individuale il tema dominante a far data dal 1994 in poi.

Tutto ciò lega il parlamentare ad un vincolo di partito nettamente più importante di quanto dovrebbe essere e con ciò ha determinato che la rielezione di quel candidato poi parlamentare è dipendente dalla scelta che la segreteria di quel partito farà alle prossime elezioni ed eliminare parlamentari “scomodi” è comune in tutti i partiti o movimenti; in tal senso ve ne sono esempi in abbondanza. Tutto ciò determina una ulteriore “anomalia”, ovvero che il parlamentare non badi tanto a svolgere con dedizione il proprio compito, ma a rispondere al gradimento della segreteria del partito che gli ha consentito di essere eletto; una sorta di “vassallaggio” con interessi tra loro collimanti. Tutto ciò, è gravissimo perché se è vero che i partiti politici sono costituzionalmente tutelati è pur vero che il principio secondo cui il parlamentare non ha vincolo di mandato da chi lo ha eletto è stato trasformato in un obbligo di “rendiconto”, rispetto a chi gli ha permesso di essere candidato. La funzione, quindi, di controllo del Parlamento sulle iniziative di governo è praticamente annullata da tutto quanto sin qui espresso. Molti cultori del diritto costituzionale di cui chi scrive non si sente uno specialista diranno che questa è la “Costituzione vivente”, ma dal nostro punto di osservazione, trovo che vi sia una deriva non condivisibile che pone nelle mani delle segreterie di partito i diritti (ed i doveri) che promanano dalla Costituzione. Così facendo, l’azione di Governo non è sottoposta ad un vaglio critico (anche dalla stessa maggioranza), ma ad una continua ed estenuante approvazione. Nel mondo del diritto e del processo questi effetti nefasti si sono visti con la delega al Governo per la riforma dei processi civile e penale (c.d. Riforma Cartabia) che alla prova dei fatti si è rivelata, grandemente, lesiva dei diritti e degli interessi dei cittadini, ma che il Parlamento ha dovuto approvare in forza di una stortura di fondo che poggia proprio su quanto detto sino ad ora e su di un principio di “non contraddizione” che, talvolta, regala “mele avvelenate” come appunto la c.d. Riforma Cartabia. Le azioni di Governo, quindi, in ragione di quanto dedotto sono, in sostanza, fuori da un controllo istituzionale e dettato da criteri costituzionali. Il Parlamento con queste caratteristiche, in realtà, non ha un potere di controllo dell’Esecutivo se non in forma medita attraverso “piccole” limature dei provvedimenti promanati dal Governo.

Il potere esecutivo: Il governo.

Il Presidente della Repubblica in carica da mandato ad una persona scelta da costui (in genere proposta dai partiti della coalizione vincente alle elezioni) per formare un governo (con i nominativi dei ministri e l’indicazione dei dicasteri ) che abbia un programma e che questo programma possa essere supportato ed approvato alle Camere da una maggioranza. L’incaricato riceve il mandato e si riserva di accettare mettendosi a lavoro sul programma, i nomi dei ministri ed i contatti con i partiti politici che hanno vinto le elezioni e possono supportare il Governo del Paese. Le elezioni (ormai da tempo) vedono misurarsi due principali coalizioni tra le quali si rinviene quella che nel complesso ha avuto più consensi e, quindi, che volgarmente ha “vinto” le elezioni. La formazione del Governo è attività lasciata totalmente in mano al Primo Ministro nominato ed alle segreterie dei partiti della coalizione vincente. E qui, vi è una prima enorme differenza tra Prima Repubblica e Seconda Repubblica (dal 1994 in poi) sebbene tale divisione che scimmiotta la Francia, da noi abbia poco senso visto che vi è una piena continuità. In ogni modo, la c.d. Prima Repubblica vedeva una legge elettorale proporzionale, ovvero, andavano alle elezioni i partiti in modo autonomo senza coalizioni e si univano dopo, una volta fatto lo scrutinio, visto le forze in campo e (soprattutto) le sinergie di programma. Ovvero, nella Prima Repubblica non vi era un programma di coalizione anche se, in verità, i governi di coalizione in Italia vi sono sempre stati e sono sempre stati guidati dal partito di maggioranza relativa: la Democrazia Cristiana (in pochi casi il PSI). Il sistema precedente, quindi, dava vita pria ad una conta delle forze in campo in modo proporzionale e poi, sulla base di un programma condiviso, ma successivo alle elezioni, dava vita ad un Governo che era figlio di una coalizione, ma non di uno schieramento. Quindi, i partiti (anche minori) potevano, legittimamente, rappresentare i loro intendimenti e non era infrequente che, se non erano d’accordo su di una legge, facevano venire meno il proprio apporto senza che ciò devastasse l’opera del Governo e si dovesse ricorrere a nuove elezioni. In quel sistema dove vi era la coalizione, ma non lo schieramento, il pensiero diverso non causava necessariamente la “crisi” di Governo. Si aprivano delle discussioni alla pari tra i partiti che appoggiavano il Governo e se ne usciva con una soluzione oppure con un contrasto insanabile che portava, in alcuni casi, alla caduta dell’esecutivo. Questo sistema, invero, dette vita, inevitabilmente, a dei governi di corto respiro, ma che non creavano, anche nel loro cadere, nessuna delegittimazione di questo o di quel partito politico. Vi erano dei governi c.d. balneari (buoni giusto per i mesi da giugno a settembre), ma vi era pari dignità tra i partiti politici ed i partiti politici esprimevano le migliori menti come parlamentari e come uomini e donne di governo. La riforma elettorale che ha scimmiottato il sistema francese ed inglese con due grandi partiti e due grandi coalizioni ha dato vita ad una strana forma di governo, nella quale il dissenso non è ammesso e se un partito o movimento è in disaccordo (e lo esterna) crea una frattura, perlopiù, insanabile nella coalizione, quindi, nella maggioranza parlamentare e, pertanto, nel Governo che è destinato a cadere. Tutto ciò, comporta una massificazione ed un controllo stringente sui partiti e movimenti della coalizione e, quindi, sui rappresentanti del popolo (parlamentari) che sono scelti dalle segreterie. Il cambio elettorale, in realtà, ha portato come conseguenza che i partiti hanno dei segretari che fungono da punto unico ed assoluto di riferimento. Siamo giunti alla personificazione del partito che con il Cav. Presidente Silvio Berlusconi ha avuto massima e più fulgida espressione. Siamo passati da partiti che erano dei depositari di ideologie e, quindi, di idee anche al loro interno contrastanti, di qui il formarsi di “correnti” (come nella DC) a partiti (o movimenti) che, in realtà, sono la propaggine del segretaria che monopolizza l’attenzione. Il partito o il movimento non è ideologizzato, ma (al più) ha un programma elettorale. È come se si fosse passati da una storia della cucina ad un menù striminzito.

E questo ha, però, reso più diretto il rapporto con l’elettore che non ha bisogno di essere ideologizzato e politicamente preparato, ma basta che abbia a cuore qualche interesse e questo interesse lo ritrovi nel programma (che, di solito, non legge nessuno e si va per sentito dire). Siamo passati dal partito come espressione costituzionale di una ideologia ed espressione di persone che si ritrovano in quella ideologia a partiti che sono espressione di una vera e propria captazione di soggetti che al massimo si rifanno a qualche idea, ma che invero non si sostanziano in vere e proprie forze ideologiche (e molto spesso di idee). Pertanto, il partito comandato dal capo è al tempo stesso “padrone” di chi ha fatto eleggere ed espressione delle idee di quel momento. Il partito attuale non indica percorsi, ma insegue la pancia dell’elettorato. Non ama la qualità, ma adora la quantità. Adora contarsi di continuo perché questo fa in modo di sviare dal compito principale di un Governo: attuare il programma letto dal suo Presidente della Camera prima del voto di fiducia. Ed il Governo regge non in base al programma se attuato o meno, ma regge in base alle prerogative dei leader dei partiti della coalizione. In sostanza, il nostro sistema attuale è ibrido in quanto i partiti (identificati in un leader) sommano i loro voti sia per i rapporti di forza in Parlamento sia per i rapporti di forza all’interno della coalizione. Quindi, quando un partito all’interno della coalizione reputa di essere più forte può atteggiarsi a”rivendicatore” di posizioni e mette in crisi il Governo. Siccome il Governo è sostenuto da una coalizione e non da una alleanza ciò determina il crollo del Governo se la crisi non rientra oppure (in casi più lievi) un “rimpasto”, termine per dire che si può arrivare al cambio di uno o più ministri per riequilibrare le forze. In verità, però, da questa analisi quello che esce, con nettezza, è che il Governo è “ostaggio” delle segreterie di partito, dipende dagli umori dei leader della coalizione e, quindi, non è solo legato (come dovrebbe) alla realizzazione del programma.

Tutto questo determina che il Governo in quanto tale è in mano ai leader di partito e ciò a prescindere dal programma e dalla sua realizzazione. Non abbiamo maggiore democrazia con la legge elettorale di maggioranza, poiché il nostro Paese non ha una cultura di sistema maggioritario, ma in definitiva è rimasto ancorato ad un proporzionale “imperfetto” con una maggiore criticità di sistema. La coalizione se entra in crisi, entra in crisi il Governo, mentre con il vecchio sistema proporzionale puro della prima Repubblica ogni partito pesava per quanto contava ed era interscambiabile. Se si escludono sbandate individuali è vero che il Governo è più stabile, ma è anche vero che sia il Governo sia il Parlamento sono pura promanazione dei Partiti che scelgono, strategicamente, non la qualità, ma la sussidiarietà sia del parlamentare sia del ministro. In questo modo, il Potere del Popolo che si esprime con le elezioni, in realtà, è ampiamente esautorato e ridotto dalle strategie e logiche di partito che vengono espresse.

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