“Il Dio chiamato Dorian”, un film che racconta la storia di Dorian Gray

Articolo di Gordiano Lupi

Il Dio chiamato Dorian è una pellicola che si può inserire in un sottogenere pop abbastanza frequentato dalla cinematografia degli anni Settanta, nel caso specifico possiamo definirlo – con il conforto di Antonio Tentori e Luigi Cozzi – un horror pop-psichedelico. Si tratta di pellicole intrise di cultura sessantottina, pervase da aneliti e fermenti di libertà, che parlano di amore libero e utopie sociali, presenti nella società contemporanea. Il cinema pop-psichdelico si basa su punti di riferimento interessanti come Marco Bellocchio (I pugni in tasca, 1965), Michelangelo Antonioni (Blow Up, 1966), Salvatore Samperi (Grazie zia, 1968), Fernando di Leo (Brucia ragazzo brucia, 1969), Mario Bava (Cinque bambole per la luna d’agosto, 1970; Diabolik, 1968). In campo strettamente horror ricordiamo Il delitto del diavolo (1970) di Tonino Cervi, storia di un giovane hippy sedotto da tre streghe agli ordini del diavolo, ma anche Ombre roventi (1970) di Mario Caiano, con una storia egiziana di riti satanici e amore libero. Non sottovalutiamo Necropolis (1970) di Franco  Brocani, interpretato da Carmelo Bene (icona del pop-psichedelico), horror e psicodramma con protagonisti la contessa Bathory, Gilles De Rais, Dracula e Frankenstein. Hanno cambiato faccia (1971) di Corrado Farina, con i suoi vampiri capitalisti che soggiogano proletari, i messaggi anticonsumistici e contro la pubblicità, compresa una surreale danza delle Fiat Cinquecento nel giardino della villa dell’industriale – vampiro, è un altro esempio di horror intellettuale in linea con i temi della contestazione giovanile. Altri esempi minori di horror pop-psichedelico sono: La notte dei fiori (1972) di Gian Vittorio Baldi, Il prato macchiato di rosso (1972) di Riccardo Ghione e Madeleine anatomia di un incubo (1974) di Roberto Mauri. Vampiri, hippies, trafficanti di sangue umano, erotismo, psicanalisi, incubi psichedelici, il tutto fuso in una struttura che non resiste al passare del tempo. Il Dio chiamato Dorian è uno dei migliori prodotti del sottogenere, nonostante alcune lungaggini e diversi momenti legati al gusto del periodo storico, risulta ancora vedibile. La pellicola racconta la storia di Dorian Gray (Berger), ossessionato dalla possibilità di perdere la giovinezza e innamorato del suo ritratto, fino al punto di vendere l’anima al diavolo per far invecchiare al suo posto il ritratto realizzato dal pittore Basil (Todd). Dorian è un grande seduttore di uomini e donne, spinge al suicidio il suo unico vero amore che abbandona per un sogno di eterna giovinezza, commette alcuni omicidi e infine si suicida di fronte al ritratto divenuto mostruoso. Dallamano e Marcello Coscia realizzano la sceneggiatura di un film cupo e morboso, rielaborando Il ritratto di Dorian Gray (1890) di Oscar Wilde, ma in versione più ambigua e aggiornata rispetto al precedente lavoro di Albert Lewin (1945). Il cast è notevole, punta su un bello e maledetto come Helmut Berger, un vero e proprio angelo del male, ma anche su tante bellezze femminili come Marie Liljedahl, Margaret Lee, Beryl Cunningham e Maria Rohm. Non sono da sottovalutare le interpretazioni di Eleonora Rossi Drago e Isa Miranda. Ricordiamo misteriose soggettive iniziali e una suggestiva fotografia londinese, oltre a un’inquietante atmosfera onirica. Margaret Lee è un’affascinante e viziosa nobile che si invaghisce di Dorian, ma nella versione televisiva le concessioni erotiche sono minime, restano a livello di suggestione. Margaret Lee è lo pseudonimo della sensuale attrice inglese Margaret Gwendolyn Box, nata a Wolverhampton il 4 agosto del 1943, che conquista il pubblico italiano durante gli anni Sessanta e Settanta. Nasce modella e ne ha tutti i numeri, alta un metro e sessantotto, bellissima, affascinante, una vera statua di carne, come da molti estimatori è stata definita. Un suo sguardo, un sorriso, una movenza bastano a far scattare un momento erotico nel casto cinema degli anni Sessanta. Non è una donna qualunque, non è un’attrice che ha bisogno di spogliarsi per trasmettere sensazioni e fascino, il suo grande sex appeal buca lo schermo, illumina l’intera pellicola. Margaret Lee è il simbolo del sesso in un periodo difficile, quando trasgredire è quasi impossibile e la censura si aggira solerte impugnando le forbici. A lei basta poco: il portamento, uno sbattere di ciglia, un sorriso, un piede denudato ad arte… e subito si realizza la tensione erotica. Margaret Lee è la donna ideale degli anni Sessanta, morbida, abbondante, giunonica, sempre supersexy nei ruoli da interpretare che non sono mai da brava ragazza. Il Dio chiamato Dorian è una delle ultime interpretazioni italiane di un’attrice che si era imposta all’attenzione del pubblico come controfigura di Marylin Monroe nel film Facciamo l’amore (1960) di George Cukor. Helmut Berger è molto bravo nei panni di un mefistofelico amante assassino che concupisce le prede per poi liberarsene con efferati omicidi. L’attore austriaco è al suo quinto film italiano, dopo aver interpretato Le streghe (1967) e La caduta degli Dei (1970) di Luchino Visconti, ma anche i meno famosi I giovani tigri (1968) di Antonio Leonviola e Sai cosa faceva Stalin alle donne? (1968) di Maurizio Liverani. Il lancio definitivo era stato merito di Visconti e anche per questo motivo i giornali parlavano di una sua presunta ambiguità. Il suo personaggio è quello di un uomo perverso e affascinante, ma a un certo punto la sua vita diventa un incubo e viene assalito dal rimorso di aver perso l’unico vero amore. Il lato horror – misterioso viene sacrificato a vantaggio di una maggior attenzione al versante erotico. L’atmosfera è suggestiva, sia per la musica psichedelica anni Settanta, che per una commistione di temi che vanno dal fantastico – colto a una curata attenzione verso il mondo hippie e borghese del periodo storico. Fotografia anticata e nitida di Otello Spilla. Molto suggestivo l’incipit: “due mani tremanti, sporche di sangue, l’acqua che scorre da un rubinetto e cancella le tracce di un omicidio”. L’operazione estetica di Dallamano è difficile, se non impossibile. Il suo Dorian Gray non ha niente di innocente e di ingenuo, ma è un perverso Helmut Berger che si muove a suo agio nei night londinesi, subisce il fascino di uomini e donne, si lascia trasportare in una spirale di sesso e decadenza senza limiti. Molte le citazioni prese dall’opera di Oscar Wilde che impreziosiscono soggetto e sceneggiatura. Pare che il regista originario avrebbe dovuto essere Jesús Franco, per un film sicuramente nelle sue corde, soprattutto per le molte concessioni a un erotismo eccessivo, anche in versione omosessuale.

Il Dio chiamato Dorian viene massacrato dalla censura – come il precedente Le malizie di Venere, un destino infausto per Dallamano – per il tono cupo e l’erotismo malsano di cui è permeato. Il Dio chiamato Dorian è unapellicola sulla solitudine umana, esistenziale, psichedelica, che indaga sui fantasmi del passato e sulle colpe di un uomo che si è macchiato di delitti imperdonabili. La versione integrale del film è reperibile soltanto sul mercato tedesco. In Italia esistono diverse versioni, tutte più o meno tagliate, ma la più completa è uscita in dvd per Raro Video. Nel 2008 è stata pubblicata un’edizione Minerva Video, facilmente reperibile. Nel 2012 è stata messa in commercio anche la colonna sonora del film, composta da Peppino De Luca e Carlos Pes, distribuita da CAM.

Il film presenta una location molto sfruttata del cinema italiano: Villa Giovannelli a Roma, un vero e proprio luogo comune del nostro cinema. Il Dio chiamato Dorian è il primo film girato in loco, ne seguiranno molti altri, da In nome del popolo italiano (1971) a Ti amo in tutte le lingue del mondo (2005). Molte location esterne sono londinesi, rappresentano la parte più interessante del film che sfrutta al meglio l’ambientazione inglese. Per approfondire si consiglia di consultare il Davinotti on line.

Rassegna critica. Rudy Salvagnini (Dizionario dei film horror): “Curiosa versione de Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde che punta, non senza fondamento, sull’erotismo e sulle depravazioni più che sull’orrore, restando quindi abbastanza in linea con gli intenti del romanzo. L’ambientazione contemporanea e la presenza del bello e maledetto per antonomasia – un Helmut Berger che sembra fatto apposta per il ruolo – rendono il film interessante, anche se l’andamento sin troppo prevedibile non aiuta” (due stelle e mezzo). Paolo Mereghetti: “I tempi non sono ancora maturi per un’operazione di aggiornamento del Dorian Gray classico, il risultato pare affrettato, superficiale, anche se non manca il divertimento pop, specie nell’uso delle attrici più attempate” (una stella e mezzo). Pino Farinotti concede due stelle ma non motiva. Filmscoop: “Il cast fa in pieno il suo dovere, il film è gradevole, si lascia guardare, ma non va oltre il mero esercizio di stile. Colpa di una trama risaputa che si discosta solo per un finale leggermente modificato”. Un film elegante, girato con cura, che concede molto all’exploitation e alla cultura psichedelica del periodo storico, ma non rinuncia a cercare la sua strada come pellicola d’autore. 

Abbiamo avvicinato Roberto Poppi, che ci ha concesso in esclusiva la sua interpretazione: “Per alcuni Il Dio chiamato Dorian doveva rappresentare il salto di qualità di un ex prestigioso direttore della fotografia che passato alla regia aveva firmato tre film di genere (aborriti dalla critica “colta”). In realtà Dallamano non aveva ambizioni autoriali ma solo una gran voglia di fare film che piacessero al pubblico. S’imbarca così in un’impresa quasi proibitiva: trasporre in immagini il romanzo immortale di Oscar Wilde The Picture of Dorian Gray. Gli intenti del regista milanese sono evidenti fin dalle prime inquadrature: attualizzare il racconto portandolo di peso nella Londra contemporanea, psichedelizzare (andava di moda) per quanto consentito, colorare con pennellate fin troppo vivaci sfondi e primi piani e infine condire il tutto con un erotismo anche trasgressivo, senza disdegnare situazioni da thriller e horror. Dallamano non tradisce del tutto Wilde, ma l’operazione “commerciale” (nel senso nobile del termine) traspare man mano che la pellicola scorre. Eccellente la fotografia di un inedito Otello Spila (solitamente impiegato come assistente o operatore). Cast da brividi: perfetto nel ruolo Helmut Berger, bello e dannato, e preziosi contributi di grandi attori, da Herbert Lom a Richard Todd, da Margaret Lee a Marie Liljedhal, da Eleonora Rossi-Drago a Isa Miranda. Film difficilmente catalogabile, ma che a quarant’anni e oltre dalla sua realizzazione, conserva ancora un fascino indiscutibile…”.

Regia: Massimo Dallamano. Soggetto: Il ritratto di Dorian Gray (1890) di Oscar Wilde. Sceneggiatura: Marcello Coscia, Massimo Dallamano, Günter Ebert. Fotografia: Otello Spilla. Musica: Peppino De Luca, Carlos Pes. Montaggio: Leo Jahn, Nicholas Wentworth. Produzione: Samuel Z. Arkoff, Harry Alan Towers (Italia/ Germania/ Gran Bretagna). Interpreti: Helmut Berger, Herbert Lom, Richard Todd, Marie Liljedahl, Beryl Cunnigham, Margaret Lee, Isa Miranda, Eleonora Rossi Drago, Renato Romano, Stewart Black, Francesco Tens, Stefano Oppedisano, Renzo Marignano.

Trama: Dorian, un bel giovane ricco e narcisista, ama Sybil, aspirante attrice. Il ragazzo posa per un ritratto che gli sta facendo il suo amico pittore Basil. Quando il ritratto finisce Dorian si rende conto  che lui dovrà invecchiare mentre il quadro resterà immutato nel tempo, ritraendo la sua bellezza. La notte stessa litiga con Sybil e la scaccia. Il mattino successivo scopre che la sua immagina nel ritratto appare leggermente stanca, come invecchiata. Dorian decide di nascondere il quadro e continua la sua vita viziosa, senza risparmiarsi. Finale inquietante con il suicidio del protagonista davanti alla sua immagine che diventa sempre più vecchia.

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