Riascoltando “Storia di un impiegato” di Fabrizio De André

Articolo di Gordiano Lupi

Riascoltando un vecchio vinile come Storia d’un impiegato, quarant’anni dopo, le emozioni non sono le stesse, al tempo quel che cantava De Andrè era speranza diffusa, adesso è utopia, quel che diceva era sentire comune, adesso è ricordo.

Un impiegato ascolta, cinque anni dopo, una delle canzoni del maggio francese del 1968, siamo in Italia nel 1973, anni di Democrazia Cristiana e di scandali, di nefandezze al potere, di stragi di Stato, anni che non erano belli – lo sono solo nel ricordo -, anni che diventeranno di piombo. Quella canzone del maggio accende una voglia di lotta nel piccolo impiegato, racconta episodi vissuti da studenti francesi, narra azioni di rivolta, auto in fiamme, borghesi perseguitati dall’odio di classe. Una canzone porta l’impiegato a riflettere sulle sue responsabilità, infatti è dedicata a chi non ha partecipato alla rivolta, dice a chi se ne stava in casa tranquillo: pure se vi credete assolti / siete lo stesso coinvolti. E lui guarda la sua vita, non può unirsi agli studenti, troppo più grande e così diverso da loro, ma non può stare neppure con le mani in mano; per questo decide di agire da solo, gettando una bomba in un ballo mascherato, frequentato da personaggi che detengono le leve del potere, devastando i miti della borghesia. Individualismo portato all’eccesso, l’impiegato si libera non solo dei simboli del potere ma anche di padre e madre, persino dell’amico che gli ha insegnato il come si fa (a ribellarsi), fino a restare solo contro tutti. Tanti sogni malati si susseguono, sentiamo le parole di un giudice che assolve l’impiegato dai suoi delitti, annoverandolo tra le persone che contano, perché è stato importante, grazie a lui il potere si è liberato di vecchie cariatidi invise al sistema. L’ultimo sogno dell’impiegato è quello del potere, un incubo che gli fa capire come non si possa sfuggire alla propria condizione di isolamento e di angoscia. Non è così che si fa una rivoluzione, un bombarolo solitario non può far saltare in aria il Parlamento, al massimo può far esplodere (per errore) un chiosco di giornali. E si finisce in galera a chiedersi a cosa sia servito, a ripensare a una donna tanto amata, immaginando la moglie circondata da giornalisti che verranno a chiederle del nostro amore. Solo in carcere l’impiegato scopre il senso della parola collettivo, insieme agli altri capisce come si fa una vera rivoluzione, come si mette in atto un’azione di protesta. Ecco che arriva finalmente il noi. Ecco che una nuova canzone del maggio indica la strada. Ecco che si comprende come sia possibile ribellarsi partendo da un collettivo di persone unite dalla stessa voglia di cambiamento.

Storia di un impiegato ascoltato oggi, a quarant’anni esatti dalla sua uscita, pare archeologia, pure se Cristiano – il figlio di Fabrizio – l’ha riportato in auge con la sua voce che tanto ricorda quella paterna. Non solo perché mi è tutto ingiallito in quel cartoncino d’altri tempi, edizione Produttori Associati (tu pensa!), ma soprattutto perché De André e Bentivoglio scrivono testi e musiche legati a un determinato periodo storico, di fatto irripetibile. Nicola Piovani era l’arrangiatore di quel fantastico disco, il futuro premio Oscar era giovanissimo ma già così ispirato, dotato di una magia musicale che sarebbe diventata una deflagrazione artistica. Storia di un impiegato è un disco inciso nel 1973; se vado con la memoria a quel che facevo in quegli anni ricordo un bambino seduto sui banchi di terza media che pensa solo a giocare a calcio; ma quel disco l’ho comprato anni dopo, sarà stato il 1975, ero al liceo, dopo aver conosciuto Guccini e De André, la loro voglia di dire cose nuove nel mondo della musica, figlia di una follia diffusa di voler cambiare il mondo. E adesso che lo riascolto ha persa molta di quella magia. Non lo so davvero che cosa possano trovarci i ragazzi del 2023, magari dovrebbero dirmelo loro …

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