Nel romanzo pubblicato da Lupi Editore, la vita e la narrazione si intrecciano in un gioco di riflessi che indaga i legami, l’identità e la necessità di dare forma all’esperienza. La possibilità di continuare a cercare un senso, anche quando tutto sembra dissolversi: nella vita, nell’amore, nella scrittura
Ho conosciuto Valeria Mancarella di recente ad Agrigento grazie ad un amico comune il famoso Mercante dei Libri , Alessandro Accurso Tagano. E’ una donna che sa come pesare le parole quando parla di se stessa, della società e degli altri. Per questo ero molto curioso di leggere il suo romanzo. E come mi accade quando leggo e trovo interessante quello che ho appena divorato, accendo il pc e scrivo.
Nel panorama letterario attuale, Per un valido motivo di Valeria Mancarella, edito da Lupi Editore, si colloca come un’opera capace di interrogare, con fine sensibilità e profondità concettuale, i confini sfumati tra esistenza e rappresentazione, tra l’esperienza vissuta e la sua traduzione nella parola scritta. È un romanzo che riflette sulla vita come narrazione e sulla narrazione come modo di vivere, in cui l’incontro tra una scrittrice e uno sconosciuto diventa dispositivo narrativo e, insieme, esperimento relazionale.
Dietro questa trama apparentemente semplice, si muove una riflessione più ampia: quella sull’identità contemporanea, sulle relazioni liquide e sul potere trasformativo della parola.
Da un punto di vista sociologico e comunicativo, il libro può essere letto non tanto come una storia d’amore o di finzione, ma come un laboratorio dei sentimenti sociali, uno spazio in cui la scrittura diventa lente d’ingrandimento del nostro tempo. La proposta della scrittrice al suo interlocutore – diventare protagonista di un romanzo – rappresenta una dimostrazione espressiva potente: convertire la vita in testo, ma anche il testo in esperienza. In questo cortocircuito fra reale e immaginario, Mancarella coglie il nodo centrale della modernità: la ricerca di autenticità in un mondo dominato dall’apparenza.

Zygmunt Bauman ci ha insegnato che i legami nella modernità liquida sono “connessioni fragili”, temporanee, spesso vissute come esperimenti più che come vincoli. Nel romanzo, la relazione che nasce dall’incontro fra la scrittrice e il suo protagonista è proprio di questa natura: un rapporto che si costruisce nel gioco del racconto, nella reciprocità dello sguardo, ma anche nella sua inevitabile caducità.
Ciò che interessa a Mancarella non è l’amore come sentimento romantico, bensì il modo in cui il contatto con l’altro diventa conoscenza, rispecchiamento, messa in crisi dell’identità. “Perché succede di incontrare chi ci somiglia tanto da indurci, inutile sforzo, nell’ideale di una perfetta aderenza”, scrive nel capitolo finale Rassicurazioni. È una frase che potrebbe appartenere anche alla sociologia dei legami: nella ricerca dell’altro, cerchiamo noi stessi, e nel tentativo di fonderci, scopriamo l’impossibilità di farlo.
L’autrice mostra come ogni incontro autentico nasca da un attrito, da una distanza che non può essere colmata. E tuttavia, è proprio quella distanza a generare scrittura, a dare forma al desiderio di comprendere e di raccontare. Indubbiamente, il romanzo si inserisce in una riflessione ampia sul bisogno moderno di dare voce alle esperienze, di adattare l’incontro in narrazione, la relazione in linguaggio condiviso.
Nel capitolo Rassicurazioni, Mancarella afferma: “La scrittura è allenamento, da ripetere con costanza… Non è ispirazione incontrollata, è bisogno di fissare un concetto, una sequenza, un’espressione”. Questa dichiarazione racchiude la poetica e la sociologia implicita del romanzo. La scrittura è presentata come pratica quotidiana, come esercizio di consapevolezza, ma anche come gesto vitale nel senso più profondo: è un modo di abitare il mondo, di dare ordine al flusso dell’esperienza.
Roland Barthes definiva la scrittura come “una voce che si forma all’interno di un corpo”, un istante che unisce pensiero e materia. Mancarella sembra riprendere questa visione: scrivere significa tradurre l’emozione in parole, trasformare la vita in un codice che non è mai completamente decifrabile. Quando afferma di portare sempre con sé un quaderno, l’autrice descrive una tensione che è anche culturale: la necessità di documentare, di dare un significato all’effimero, di costruire memoria in un presente che tende a cancellarla.
L’io narrante non è soltanto una scrittrice, ma una donna che ragiona sul proprio ruolo di autrice e di soggetto sociale. L’atto dello scrivere diventa una via di resistenza alla dispersione del sé, una ricerca di coerenza in un mondo frammentato. In questa direzione, Per un valido motivo dialoga idealmente con i processi di auto-narrazione che caratterizzano la società odierna: dai social network ai diari digitali, la vita viene continuamente riscritta, ma raramente compresa. Mancarella restituisce invece alla scrittura il suo valore meditativo, lento, incarnato.
Il romanzo gioca con i confini fra verità e invenzione. La scrittrice e il protagonista diventano entrambi personaggi, in un continuo slittamento di ruoli che interroga la possibilità stessa dell’autenticità. Erving Goffman, sociologo canadese, nella sua teoria della rappresentazione del sé, spiegava che la vita sociale è una scena su cui gli individui compiono performance per costruire la propria immagine. In Per un valido motivo, questa “messa in scena” diventa letterale: la scrittura è il palcoscenico dove l’identità si sperimenta, si dissolve e si ricompone.

La forza dell’opera sta nel mostrare come l’invenzione non sia menzogna, ma mezzo di conoscenza. Fingere, in questo contesto, significa permettersi di esplorare ciò che non si osa vivere apertamente. La relazione fra scrittrice e protagonista è dunque un dispositivo narrativo che riflette sulle nostre pratiche quotidiane di comunicazione: ogni rapporto reale, oggi, è anche una narrazione. Ogni incontro è mediato dal linguaggio, dall’immagine, dalla rappresentazione che di noi stessi offriamo agli altri.
Quando Mancarella scrive: “Alla fine della gara con noi stessi, vincitori o perdenti, ci risvegliamo forti a raccogliere i cocci da incollare attentamente per ricostruire la nostra forma originaria”, non parla solo di una vicenda sentimentale, ma di un processo universale di ri-identificazione. La scrittura diventa lo strumento con cui si riparano le crepe, rendendole visibili: non per nasconderle, ma per accettarle come parte del proprio disegno.
Per un valido motivo può essere letto come una micro-etnografia delle relazioni moderne. Il rapporto fra la scrittrice e il suo protagonista è un campo di osservazione delle dinamiche di potere, desiderio, distanza. È una relazione asimmetrica – lei crea, lui viene creato – ma anche un rapporto speculare, in cui l’altro restituisce all’autrice la sua stessa immagine deformata. È ciò che accade nei legami odierni, dove l’altro non è più identità autonoma ma riflesso del nostro bisogno di riconoscimento.
Bauman sosteneva che la paura principale della modernità liquida non è la solitudine, ma la dipendenza. Il romanzo di Mancarella ne dà una versione intima: la protagonista tenta di mantenere una distanza per non “cadere in un coinvolgimento troppo diretto”, come scrive. La sua è una difesa lucida e dolorosa contro la dissoluzione del sé nell’altro. Ma è anche un gesto di responsabilità: ogni incontro comporta un costo emotivo, e la vera libertà si conquista solo rinunciando all’illusione di poterci fondere completamente con l’altro.
Alla fine, il “valido motivo” evocato dal titolo sembra essere proprio la scrittura stessa: il motivo che spinge a vivere, a comprendere, a ricominciare. L’autrice chiude il romanzo con parole che suonano come un testamento di resistenza: “In piedi riprendiamo il percorso verso il futuro sconosciuto, perciò, più affascinante del presente. Vorrei trasmetterti la forza che mi hai dato, incosciente di te, e mostrarti, al di là del tempo condiviso, la vita da imparare”. Queste righe condensano il valore sociologico dell’opera: la vita si costruisce attraverso le relazioni, ma ogni rapporto comporta anche una certa distanza. La scrittura è lo spazio in cui possiamo cambiare questa distanza o perdita in comprensione e conoscenza.

Il libro è un romanzo sull’arte di restare umani in un tempo frammentato. Combina introspezione e analisi sociale, mostrando come ogni esercizio di scrittura sia anche un atto relazionale e un viaggio per organizzare e condividere l’esperienza collettiva della vita.
Mancarella ci invita a riconoscere la fragilità come condizione essenziale, la parola come voce di resistenza, e il racconto come spazio di incontro.
E forse, come lettori e come individui, comprendiamo che quel “valido motivo” non è altro che la possibilità di continuare a cercare un senso, anche quando tutto sembra dissolversi: nella vita, nell’amore, nella scrittura.
L’AUTRICE
Laureata in Lettere Classiche, docente, lettrice e scrittrice instancabile per passione e volontà. Vive ad Agrigento con la sua famiglia e l’amico bassotto Tito. Ha pubblicato per Lupi editore “Racconti sospesi” (2023) e “Di un padre” (2024). Questo è il suo terzo romanzo.
